lunedì 6 febbraio 2012

I sei pilastri della conversione + 1‏

di Andrea Agostini


I sei pilastri della conversione
Autore: Viale, Guido

Dall’analisi di AAA a un programma concreto di cose che dovrebbero impegnare quanti credono che un mondo migliore si possa cominciare a costruire oggi. Ma il bulldozerdei poteri finanziari ci darà il tempo?

Il manifesto, 2 febbraio 2012
Misurarsi con il governo Monti sul suo terreno non è saggio. Monti comanda ma non governa. Comanda perché i partiti che lo sostengono (sempre più infelici) glielo lasciano fare e gli elettori che essi pretendono di rappresentare non hanno forze né strumenti per fermarlo. Per tutti il movente è unico: la paura di un disastro che non si sa valutare. Ma a governare non è né Monti né l'Europa, ma la finanza internazionale che decide per entrambi. Le misure adottate - "salvaitalia" e "crescitalia" - non avranno alcun effetto di stabilità, come non lo avrà il nuovo pacchetto ammazza-lavoro cucinato dalla prof. Fornero.  


Le cifre sparate sui futuri effetti di quei decreti (Pil +11%; salari +12; consumi +8; occupazione +8; investimenti + 18) ricordano più la tombola che le discipline accademiche di cui la compagine governativa mena vanto. Se oggi la speculazione sul debito italiano sembra placarsi è perché Monti le ha dato un altro po' di succo da spremere, esattamente come era successo in Grecia, fino a nuovo ordine. D'altronde Draghi ha spiegato che lo spread serve proprio a questo: rendere possibile quella spremitura che il lessico economico-politico chiama "riforme" e "modernizzazione". Ma con un debito di 1900 miliardi e un patto di stabilità che pretende di dimezzarlo a nostre spese, gli agguati della finanza continueranno a restare alle porte. E finché la finanza internazionale potrà contare su risorse che valgono 10-15 volte più del prodotto lordo del mondo non c'è governo che ne sia al sicuro; nemmeno erigendo una muraglia cinese contro i suoi assalti.

Il confronto con il governo Monti, con questa Europa e con il potere della finanza internazionale va quindi condotto su un diverso piano, che è quello della vita e delle condizioni di esistenza della maggioranza della popolazione, dei rapporti che ci legano all'ambiente fisico e sociale in cui viviamo, dei diritti inalienabili di cittadinanza che ne discendono in quanto abitanti di questo pianeta (tutte materie totalmente estranee alla cultura del governo, ma dimenticate anche da molti dei suoi commentatori e dei suoi critici). Quei rapporti rendono indissolubile il nesso tra ambiente ed equità sociale (e intergenerazionale: esisterà, si spera, un mondo anche dopo gli alti e bassi dello spread).
Se la crisi economico-finanziaria e la crisi ambientale segnalano, con la loro dimensione globale, l'urgenza di una svolta per tutto il pianeta, questa non può prescindere, e non può distinguersi, da una radicale conversione ecologica del modo in cui consumiamo (e quello che consumiamo, alla fine, è l'ambiente) e del modo in cui produciamo (e quel che produciamo è soprattutto diseguaglianza e sofferenze superflue). E siccome la conversione ecologica riguarda in egual misura i nostri atteggiamenti soggettivi verso l'ambiente e gli altri esseri umani, e l'organizzazione delle nostre attività "economiche" (che cosa produciamo, come, dove, con che cosa e perché lo produciamo), è un imperativo concreto partire da quello che ciascuno di noi può fare, o intende fare, qui e ora.

Quello che lega il nostro agire localmente - il nostro "progetto locale" - al pensiero globale che deve informarlo è la sua replicabilità: la possibilità che venga riprodotto, adattandolo alle diverse situazioni con la dovuta intelligenza del contesto, senza che le realizzazioni degli uni vadano a detrimento di quelle di altri; e sviluppando invece una potenza sinergica.

Solo così i legami che si creano possono costituire la base - a diversi livelli, fino a ricoprire con una rete l'intero pianeta - sia di un programma generale, sia della formazione di una cittadinanza attiva (intersettoriale, interconnessa, internazionale, intergenerazionale), sia di organizzazioni che si candidino a esautorare, sostituire o integrare le strutture esistenti: a piccoli passi e a macchia di leopardo, per lo più; a salti improvvisi, a volte; ma sempre più spesso in contesti conflittuali, e fronteggiando rischi crescenti. Il "soggetto politico" di cui si è discusso - senza dirlo - nel recente convegno di Napoli sui beni comuni è parte di questo percorso, i cui pilastri mi sembrano questi:

1. La conversione ecologica è un processo di riterritorializzazione, cioè di riavvicinamento fisico ("km0") e organizzativo (riduzione dell'intermediazione affidata solo al mercato) tra produzione e consumo: processo graduale, a macchia di leopardo e, ovviamente, mai integrale. Per questo un ruolo centrale lo giocano l'impegno, i saperi e soprattutto i rapporti diretti della cittadinanza attiva, le sue associazioni, le imprese e l'imprenditoria locale effettiva o potenziale e, come punto di agglutinazione, i governi del territorio: cioè i municipi e le loro reti, riqualificati da nuove forme di democrazia partecipativa. Le caratteristiche di questa transizione è il passaggio, ovunque tecnicamente possibile, dal gigantismo delle strutture proprie dell'economia fondata sui combustibili fossili alle dimensioni ridotte, alla diffusione, alla differenziazione e all'interconnessione degli impianti, delle imprese e degli agglomerati urbani rese possibili dal ricorso alle fonti rinnovabili, all'efficienza energetica, a un'agricoltura e a una gestione delle risorse (e dei rifiuti), dei suoli, del territorio e della mobilità condivise e sostenibili.

2. Per operare in questa direzione è essenziale che i governi del territorio possano disporre di "bracci operativi" con cui promuovere i propri obiettivi. Questi "bracci operativi" sono i servizi pubblici, restituiti, come disposto dal referendum del 12 giugno, a un controllo congiunto degli enti locali e della cittadinanza, cioè sottratti al diktat della privatizzazione. Per questo le risorse destinate alla conversione ecologica - cioè, tutte quelle non necessarie a sostenere i compiti di una supplenza centralizzata, nell'ambito di un approccio fondato su una vera sussidiarietà - dovrebbero essere restituite agli enti locali e sottoposte ad adeguati controlli, non solo di legalità, ma soprattutto ad opera della cittadinanza attiva. Nell'immediato è decisivo che vengano sottratti ai vincoli del patto di stabilità gli investimenti destinati al welfare municipale e alle conversioni produttive. Il debito pregresso contratto dalle amministrazioni locali, o dalle Spa che rientrano nel perimetro dei servizi locali del cui controllo deve riappropriarsi il governo del territorio, come il debito pubblico dello Stato nazionale dovranno essere ridimensionati, in forma contrattata, in misura sufficiente a non essere di ostacolo alla conversione produttiva. Le responsabilità di un rifiuto di questa negoziazione ricadono su chi la respinge, ma vanno studiate e predisposte fin da ora tutte le misure per attenuarne le conseguenze sulla cittadinanza. D'altronde è impensabile che si possa uscire dal caos in cui il liberismo ha precipitato l'economia del pianeta senza un radicale ridimensionamento della bolla finanziaria che sovrasta l'economia mondiale. Quali che ne siano le conseguenze.

3. Il terzo pilastro è l'arresto del consumo di suolo: le nostre città e tutti i centri abitati, di qualsiasi dimensione, sono già sufficientemente costruiti per soddisfare con le strutture esistenti o con il recupero dei suoli occupati da strutture inutilizzabili, tutte le esigenze di abitazioni, di attività produttive e commerciali, di socialità e di promozione della cultura e del benessere di cui una comunità ha bisogno. Se queste strutture e questi suoli non vengono resi disponibili dal vincolo che lega il bene al suo proprietario occorre procede con una politica di espropri e rivendicare una legislazione che la renda praticabile. Se si vuole combattere la rendita che, come sostengono tutti gli economisti liberisti, abbatte la produttività, ecco un buon punto da cui cominciare.

4. Il suolo urbano libero da costruzioni e quello periurbano possono essere valorizzati da un grande progetto di integrazione tra città e campagna, tra agricoltura e agglomerati residenziali. Un'integrazione che è stata il pilastro delle civiltà di tutto il mondo prima dell'avvento della globalizzazione che ha preteso - grazie al basso costo del trasporto reso possibile dall'abuso dei combustibili fossili - di fare dell'agricoltura di tutto il pianeta il "contado" dei centri urbani, con il degrado progressivo sia degli uni che dell'altra. Le municipalità hanno molti strumenti (alcuni a costo zero) per promuovere una riconversione di questo rapporto: orti urbani, disseminazione dei Gas, farmer's markets, mense scolastiche e aziendali, marchi di qualità ecologica per la distribuzione, gestione dei mercati ortofrutticoli: quanto basterebbe per cambiare l'assetto dell'agricoltura periurbana e per ri-orientare l'alimentazione della cittadinanza con filiere corte.

5. La mobilità sostenibile (attraverso l'integrazione intermodale tra trasporto di linea e mobilità flessibile: car-pooling, car-sharing, trasporto a domanda e city-logistic per le merci) e la riconversione energetica (attraverso la diffusione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili e la promozione dell'efficienza nelle abitazioni, nelle imprese e nei servizi) costituiscono gli ambiti fondamentali per sostenere le imprese e l'occupazione in molte delle fabbriche oggi condannate alla chiusura. La riterritorializzazione delle attività in funzione della domanda creata dalla conversione ecologica è una vera politica industriale che può salvaguardare e promuovere occupazione, know-how e potenzialità produttive in settori quali la fabbricazione di mezzi di trasporto, di impianti energetici, di materiali per l'edilizia ecosostenibile, di macchinari e apparecchiature a basso consumo. Crea domanda vera perché risponde alle necessità degli abitanti di un territorio, ma richiede condivisione e può essere sostenuta solo attraverso rapporti diretti tra produttori ed enti locali. (ha fatto qualcosa di analogo la Volkswagen producendo impianti di microcogenerazione piazzati direttamente in case e imprese attraverso un accordo con una società di distribuzione dell'energia. Lo possono fare i comuni italiani senza alcuna violazione delle norme sulla concorrenza).

6. La conversione ecologica è innanzitutto una rivoluzione culturale che ha bisogno di processi di elaborazione pubblici e condivisi e di sedi dove svilupparli. La cultura non può essere solo un passaporto per l'accesso al lavoro o uno sfogo dopolavoristico. Può e deve tornare a essere l'ambito di una riflessione sul senso della propria esistenza, della convivenza civile, della riconquista di un rapporto sostenibile con l'ambiente: tutte condizioni indispensabili di una adesione convinta alla conversione ecologica. Questa riflessione ha bisogno di sedi, di strumenti, di promotori, di risorse: nelle scuole e nell'università, nell'educazione permanente, nelle istituzioni della ricerca, nel tessuto urbano, nei mezzi di informazione, sulla rete.
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Il Settimo Pilastro della Conversione 
Autore: Magnaghi, Alberto

Una visione polarizzata sul territorio integra opportunamente gli altri elementi di un progetto alternativo a quello maggioritario. 

Il manifesto, 4 febbraio 2012 Per ragioni di simmetria vorrei aggiungere un settimo pilastro ai sei che Guido Viale enuncia (il manifesto del 2 febbraio) come alternativa strategica ai sette della saggezza del governo avanzati da Alberto Asor Rosa. Si tratta della valorizzazione del patrimonio territoriale come bene comune. Anzi forse più che di un pilastro si tratta di un plinto di fondazione che regge gli altri sei. Con la maturità della modernizzazione si sono consolidati i concetti di patrimonio naturale (bellezze naturali, biotopi, zone umide, parchi naturali) e culturale (siti archeologici, monumenti, centri storici) per i quali l'Unesco, il Consiglio d'Europa e molti altri organismi sovranazionali promuovono politiche di conservazione.

Si è cosi consolidato nel tempo un doppio regime di governo del territorio: da una parte una porzione di territorio minoritaria e puntiforme (i beni del patrimonio naturale e culturale appunto) "tutelata" rispetto alle leggi dello sviluppo economico; si tratta di una compensazione (o cattiva coscienza?) nei confronti dell'altra parte del territorio ( che va dal 70 al 90%) sottoposto invece alle suddette leggi, nonché al saccheggio e al consumo in quanto mero supporto tecnico della civiltà della tecnoscienza, ovvero di un processo produttivo fondato sulla edificazione di un insediamento umano totalmente artificiale, liberato dai "vincoli" della natura e della storia. Tuttavia, con la crescita di consapevolezza culturale e sociale della insostenibilità di questo modello schizofrenico, ne è iniziata da tempo l'erosione a partire da diversi ambiti culturali di controtendenza, che hanno operato una sorta di "scavo delle fondazioni" di una nuova visione ecologica e territorialista, che ha messo in causa la concezione stessa di "patrimonio".

Esemplifico alcuni di questi "scavi" (senza purtroppo lo spazio per documentarli):

1. Molte ricerche, progetti e piani territoriali sperimentano metodi e pratiche di integrazione multisettoriale, partecipativa e multiscalare del governo del territorio; affrontano dunque il passaggio da forme di pianificazione regolativa rispetto agli squilibri dei sistemi di produzione e di mercato dati (nei quali territorio, ambiente e paesaggio avevano un ruolo strumentale), a modelli di pianificazione identitaria e statutaria che assumono il patrimonio locale e il suo governo sociale come mezzo di produzione di ricchezza durevole, attraverso forme di neomunicipalismo;

2. Molti studi e progetti urbani rifocalizzano l'attenzione dalle politiche espansive con forte consumo di suolo agricolo e modelli di urbanizzazione periferica e diffusiva verso la rigenerazione e il recupero dell'urbanità e degli spazi pubblici, il superamento delle periferie verso modelli policentrici di città di città, la riqualificazione dei rapporti fra città e campagna, attribuendo alla agricoltura periurbana compiti complessi di riqualificazione dell'abitare urbano;

3. Le frontiere innovative delle discipline e delle politiche agroforestali superano l'orizzonte dei programmi di ottimizzazione dell'economia aziendale verso la pianificazione integrata e multisettoriale degli spazi aperti (agricoltura di qualità e tipica, salvaguardia idrogeologica, complessità ecologica, qualità paesaggistica, reti corte fra produzione e consumo, ripopolamento rurale e valorizzazione dei paesaggi rurali storici);

4. Le discipline che affrontano il patrimonio ambientale e culturale registrano in alcune esperienze di piani regionali e di area vasta una discontinuità progettuale fra le politiche di conservazione di aree protette caratterizzate dalla separazione fra natura e cultura e una concezione patrimoniale integrata dell'ambiente (reti eco-territoriali) e del territorio (progetti di territorio, di bioregioni, di paesaggio) estesa a tutto il territorio regionale;

5. in questo percorso le discipline archeologiche vanno attribuendo centralità ad un approccio territoriale globale, passando dalla priorità del sito a quella del contesto territoriale e paesaggistico, con interpretazioni multidisciplinari e multifattoriali; nel quadro di una tendenza più generale a considerare i sistemi di beni culturali come parte integrante e interconnessa del patrimonio territoriale; ciò comporta, ad esempio, i passaggi concettuali dal museo all'ecomuseo, dal centro storico al territorio storico, dalle eccellenze paesaggistiche ai paesaggi rurali e urbani nella loro integrità territoriale, ambientale e di uso sociale (mondi di vita delle popolazioni, secondo la Convenzione europea del paesaggio);

6. Molte ricerche e sperimentazioni locali in campo energetico spostano l'attenzione verso i bilanci energetici territoriali, il risparmio e la produzione locale di energia da fonti rinnovabili; nelle esperienze più avanzate, esse si incentrano sulla produzione di mix energetici locali in coerenza con la valorizzazione delle peculiari qualità energetiche del patrimonio territoriale e del paesaggio;

7. Le discipline idrogeologiche spostano da tempo l'attenzione progettuale dai piani settoriali impiantistici di mitigazione del rischio idraulico e inquinologico verso piani integrati di bacino che mobilitano, nelle esperienze più avanzate, relazioni multisettoriali per rendere coerenti fra loro azioni relative alla sicurezza idraulica, alla riqualificazione ambientale e paesaggistica, all'agricoltura di presidio, ai corridoi ecologici, ai beni culturali, al turismo, alla mobilità dolce, alla navigabilità; questi piani attivano nuovi strumenti partecipativi come i contratti di fiume e i piani di sottobacino mobilitando le energie sociali dei territori di riferimento;

8. Molti progetti e politiche infrastrutturali si riposizionano, rispetto alle visioni che privilegiano l'attraversamento del territorio (piattaforme logistiche, alta velocità, grandi corridoi) verso visioni integrate delle infrastrutture come servizio alla fruizione dei sistemi locali territoriali (integrazione dei sistemi infrastrutturali, sviluppo della mobilità dolce, recupero della viabilità storica su ferro e su gomma, per la fruizione dei beni e dei paesaggi locali);

9. Molti approcci distrettualisti ai sistemi economici locali sono evoluti verso le tematiche dello sviluppo locale; trattando in questo passaggio sia filiere integrate dall'agricoltura, all'artigianato, alle piccole e medie imprese, al terziario avanzato; sia le relazioni fra tipologie dei sistemi produttivi e qualità e valorizzazione dei patrimoni ambientali, territoriali, energetici e paesaggistici;

10. Componenti rilevanti delle discipline geografiche affrontano le relazioni fra il "mondo e i luoghi" evidenziando il ruolo dei milieu locali e dei sistemi locali territoriali nei processi di sviluppo e nella rideterminazione delle relazioni fra locale e globale;

11. Le discipline storiche, antropologiche e giuridiche sviluppano attenzione all'ambiente, al territorio, ai modelli socioculturali di lunga durata, ai modelli di gestione partecipata dei beni comuni; cosi come le problematiche filosofiche riaprono il discorso sulla Terra, sul paesaggio, sull'etica della cura, approfondendo le relazioni fra formazione del pensiero e luoghi.

Questi mondi culturali, protesi a ridefinire il protagonismo del patrimonio territoriale nella conversione ecologica e /o territorialista della società, costituiscono essi stessi un patrimonio diffuso, operante in controtendenza in molte università, centri di ricerca, enti di governo del territorio; di questi mondi intendiamo dare testimonianza attiva nella neonata Società dei territorialisti e delle territorialiste (www.societadeiterritorialisti.it).
È dal crescere di queste culture che un nuovo concetto di patrimonio territoriale (che integra patrimoni ambientali, urbani, insediativi energetici, agroforestali; saperi, sapienze e modelli socioculturali locali) prende corpo come base per un'altra concezione di produzione della ricchezza fondata sulla sua valorizzazione.

Ma il passaggio decisivo in questo percorso è stato ciò che ho messo emblematicamente a sottotitolo del mio testo "Il progetto locale": la crescita di coscienza di luogo, ovvero la trasformazione culturale che ha investito il pullulare esponenziale di vertenze territoriali, dallo specifico tema della mobilitazione, alla ricostruzione del senso di appartenenza collettiva a un territorio di cui si riscoprono, si riconoscono e si riappropriano, nel corso delle lotte, valori, identità, paesaggi, culture produttive e artistiche semisepolti, di cui prendersi cura come beni comuni.

È qui che il percorso di riconoscimento del patrimonio territoriale come bene comune, base materiale e immateriale per la produzione di ricchezza durevole, assume il suo spessore culturale e politico. È a questo punto che i soggetti variegati che ho elencato, che esprimono nel loro insieme una nuova cultura operante della trasformazione, se valorizzati in nuove forme di committenza "sociale", possono cooperare alla crescita di aggregati societari locali composti da cittadini-produttori, da nuovi agricoltori, da intraprese economiche a valenza etica; a condizione che interagiscano con questi aggregati governi locali e strutture finanziarie finalizzati alla crescita del benessere sociale e della felicità pubblica, e all'attivazione di forme di autogoverno per la gestione sociale dei beni comuni.

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