venerdì 7 settembre 2012

La favoletta luogocomunista non regge più


Inflazione, svalutazione e quota salari

http://goofynomics.blogspot.it/2012/09/inflazione-svalutazione-e-quota-salari.html
Parliamo di cose serie.

Nel dibattito che si sta (forse) svolgendo a sinistra circa l'opportunità di uscire dall'euro, un argomento che viene portato avanti è quello secondo il quale dall'euro ci sarebbero due uscite: una a destra, e una a sinistra. Il che attribuisce all'euro un vantaggio, rispetto ad altri posti dai quali si usciva in un modo solo.


Ho un po' polemizzato su questo con Emiliano Brancaccio, anche perché, come avrete capito, mi ero risentito (ma ingiustamente) per un suo articolo nel quale pareva che dividesse gli economisti italiani in tre categorie: da una parte lui, e dall'altra due categorie di fessi: quelli che "fuori dall'euro c'è la guerra" e quelli che "usciamo e tutto si risolve per magia". D'altra parte, che ho un carattere di merda non riesco a nasconderlo. Nel frattempo abbiamo raggiunto un accordo sul fatto che la tassonomia degli economisti italiani è un po' più articolata, e possiamo tornare serenamente al lavoro.


Come credo sappiate, personalmente non ho mai sostenuto né che l'uscita sarà una passeggiata, né che risolverà tutti i problemi. L'uscita sarà costosa, ma i costi non saranno quelli che il terrorismo mediatico suggerisce. L'uscita non risolverà tutti i problemi, perché bisognerà gestire bene la sovranità riacquistata. Su questo ultimo punto il blog abbonda di spunti che sto sistematizzando nel mio libro. Diciamo che praticamente tutto quello che la sinistra propone per tenere in vita l'euro va bene, purché lo si applichi dopo l'uscita dall'euro. Ma di questo parliamo un'altra volta.

Tornando alle due uscite, io trovo il dibattito relativamente poco rilevante per due motivi. Il primo è che purtroppo questo dibattito si è già svolto, in Francia, con le critiche di Jacques Sapir al piano di Marine Le Pen. Sono critiche che hanno più che altro portato fortuna alla Le Pen, come sapete. Il secondo motivo, più serio, è che certo, bisogna pensare al dopo. Ma, appunto, al dopo. Non ha molto senso chiedersi come gestire la transizione perché è matematicamente certo, come ci siamo detti, che essa verrà gestita dalle persone sbagliate, quando il mercato le costringerà a farlo.

E allora?

Vogliamo che questa arma di distruzione di massa di diritti e redditi dei lavoratori continui a operare?

Non credo: vogliamo uscire, a sinistra, a destra, al centro, di sopra, di sotto, non importa, non decidiamo noi, e non è nemmeno rilevante, in un certo senso. Quello che è rilevante è riuscire, con la divulgazione e l'impegno al dialogo, a creare un consenso attorno a una visione equilibrata della realtà, che ci permetta, dopo, di combattere una battaglia politica a favore delle classi subalterne, con l'appoggio di un movimento di opinione consapevole.

Io la vedo così e mi regolo di conseguenza. Il che non significa assumere la posizione di quello che "elude" i problemi (rassicuro su questo anche Emiliano).

Fa parte di questo impegno per costruire una piattaforma condivisa anche riflettere coi colleghi che vogliano farlo. Raccolgo qui lo stimolo di Emiliano, che nella sua replica dice:

"Qualcuno forse ritiene che in fondo conti solo il salario reale, e che la quota salari non sia importante? Spero che nessuno si azzardi a pensarla in questi termini: la dinamica delle quote distributive è forse l’indicatore chiave del cambiamento nella struttura socio-politica di un paese. Il fatto che in Italia quel crollo della quota salari sia avvenuto in concomitanza con una perniciosa mutagenesi del ruolo del sindacato non è certo casuale.



Dunque: io in effetti non avevo fatto vedere solo il salario reale, ma una cosa un po' diversa: la dinamica del salario reale e della produttività media del lavoro. Se il salario reale cresce più della produttività, pensavo io, si vede che i lavoratori si appropriano di una quota maggiore di prodotto, cioè la quota distributiva cresce. Se il salario reale cresce meno della produttività, allora hanno vinto i capitalisti.

Il grafico mostrato era questo qui:


e racconta una serie di cosette delle quali varrebbe la pena di parlare.

Il mio argomento era uno solo, che probabilmente non riguarda nemmeno tanto Emiliano, quanto quelli che sostengono che l'inflazione danneggia la vedova, l'orfano e il proletario. Il grafico mostra bene che nel periodo della disinflazione (dall'inizio degli anni '80 in poi) la produttività continua a crescere, mentre il salario reale si stabilizza, il che significa che la quota salari scende. Quindi, come dire, l'argomento piddino par excellence, quello secondo cui l'inflazione è la più iniqua delle imposte perché colpisce i poveri in misura maggiore, è una scemenza.

Possiamo farlo vedere anche con la variabile che Emiliano giustamente ritiene più significativa.


Questa figura, tratta dal lavoro che sto facendo, mostra l'andamento di quota salari e inflazione in Italia dal 1960 al 2010.La quota è calcolata come redditi da lavoro dipendente su Pil nominale, aggiuntando due basi dati: quella OCSE del 1997 (CD-Rom edition), che avevo usato per il mio modello dell'economia europea, e i dati on-line della CN Istat. Magari me la rifaccio con i dati Ameco, ma ora questi avevo.

Cosa ci dice questa figura? Una cosa molto semplice: che non è vero che quando c'è più inflazione la distribuzione del reddito diventi svantaggiosa per i salariati, o almeno che in Italia non è stato così.

Concludo citando il mio commento a questa immagine:

Se la favoletta luogocomunista avesse fondamento, a maggiore inflazione corrisponderebbe una perdita di potere d’acquisto dei lavoratori, e quindi una compressione della quota salari. Le cose stanno esattamente al contrario. La quota salari si impenna prima nel 1963, a seguito di un primo ciclo di lotte operaie che si associano anche a una fiammata del tasso di inflazione, che raggiunge il 5%. L’inflazione accelera nuovamente nel 1969, a seguito dell'autunno caldo, che porta pure lui a un aumento dell’inflazione. Segue, nel 1974, l’esplosione dell’inflazione dovuta al primo shock petrolifero. Nella Fig. 7 potete vedere che in effetti in quell’anno il salario reale smise di crescere, perché operai e sindacati erano stati colti di sorpresa, e la quota salari si flesse leggermente. Poi, dall’anno successivo, le lotte che portarono il Partito Comunista Italiano al proprio massimo storico in termini elettorali (34% nel 1976) spingono la quota salari a un massimo storico del 51%.
Dal divorzio (fra Tesoro e Banca d'Italia) in poi è una continua flessione, che porta la quota salari a toccare, all’entrata dell’euro, i valori dell’inizio degli anni ’60.

La favoletta luogocomunista quindi non funziona (né ce lo saremmo aspettato). In realtà, tassi d’inflazione relativamente sostenuti sono spesso associati a tassi di disoccupazione contenuti e quindi a posizioni di forza dei lavoratori nelle contrattazioni sindacali, a beneficio del mantenimento della crescita del salari reali, e della quota dei salari sul prodotto. Il processo di disinflazione iniziato negli anni ’80, viceversa, ha eroso (via disoccupazione) le posizioni contrattuali dei lavoratori, favorendo lo smantellamento dei presidi del loro potere d’acquisto (meccanismi d’indicizzazione del salari) e quindi, inevitabilmente, riducendo la quota dei salari sul prodotto.

Alcuni economisti criticano l’ipotesi di uscita dall’euro sulla base del fatto che nel 1992, in occasione dello sganciamento della lira dallo Sme (con svalutazione del 20%), la quota salari diminuì di quattro punti in due anni (dal 44% al 41%). Seguono dettagliate considerazioni su come uscire dall’euro a sinistra anziché a destra: un dibattito già visto, perché si è svolto esattamente negli stessi termini in Francia, quando Marine Le Pen ha fatto propria la battaglia per il recupero della sovranità monetaria che, in Francia come in Italia, la sinistra considerava con sufficienza, ritenendola un retaggio del nazionalismo ottocentesco. In quel contesto fu Jacques Sapir (2011) a rincorrere la destra, cercando di dimostrare i limiti del piano della Le Pen.

Ora, per quanto riguarda il caso italiano, vanno fatte tre osservazioni.

La prima, più generale e sulla quale torneremo, è che in tutta probabilità non si uscirà dall’euro con un governo di sinistra, sia perché l’evento critico potrebbe essere vicino, sia perché, in ogni caso, la sinistra italiana ha mentito ai propri elettori, rivendicando come “di sinistra” il percorso verso l’euro, percorso iniziato di fatto dallo Sme e dal divorzio, i cui benefici per i lavoratori italiani abbiamo appena illustrato. Bisogna quindi rassegnarsi al fatto che, salvo ritrattazioni della sinistra (comunque disastrose in termini elettorali), se si uscirà si uscirà con un governo di destra, o con un governo di sinistra che fino al giorno prima avrà difeso l'euro (cioè avrà fatto politiche di destra).

Questo però, ed è la seconda osservazione, non pare sia un buon argomento per restare. Lo slittamento della quota salari dopo la svalutazione del 1992 certo c’è stato, ma è un episodio che si inserisce in una caduta pluridecennale di questa quota, iniziata a metà degli anni ’70 e correlata a variabili politiche, più che economiche (la progressiva perdita di posizioni del PCI, ad esempio, e la "congiura" - coma la chiamava Beniamino Andreatta - che ha condotto all'indipendenza della Banca centrale).

La svalutazione di per sé, quindi, non dico che non c'entri, ma forse c’entra relativamente poco, anche perché, e questa è la terza osservazione, anche nel 1992, ma direi in generale, la caduta della quota salari non è associata a un incremento, ma a un decremento dell’inflazione. L’argomento secondo cui “quando usciremo dovremo controllare bene i prezzi per evitare che la l’inflazione impoverisca la vedova e l’orfano” ha un indubbio richiamo emotivo, e sicuramente suggerisce anche delle linee di azione razionali che vanno tenute presenti: è sempre bene essere pronti a tutto. Ma l’esperienza storica non presta particolare supporto a questo tipo di preoccupazioni. 

Del resto, mi pare che anche Emiliano sia d'accordo su questo: il problema è stato un problema di medio-lungo periodo determinato dallo smantellamento di certe garanzie, non un problema di breve periodo di gestione del cambiamento di politica valutaria.

Sono quelle garanzie che dobbiamo ripristinare, in un'ottica di lungo periodo, anche perché, per dirla tutta, io sono molto scettico sul fatto che la scala mobile "creasse" inflazione e che la sua abolizione sia stata la bacchetta magica che ha contribuito al rientro dall'inflazione. I dati raccontano una storia completamente diversa, ma anche di questo non parliamo oggi. Ci basta aver ribadito (spero d'accordo con Emiliano) che la storia che l'inflazione danneggia la vedova, l'orfano e il proletario la lasciamo ai piddini di tutti i partiti e di tutte le nazionalità. La caduta della quota salari nel 1992-1994 si inserisce in un trend secolare che inizia sostanzialmente con l'ingresso nello Sme, che accelera con il divorzio, e che è accompagnata da una progressiva disinflazione.

Togliamoci, per favore, dalla testa l'idea che occorra una Banca centrale indipendente per difendere la vedova, l'orfano e il proletario dalla più iniqua delle imposte. Le cose stanno al contrario, e spero che su questo non ci sia troppo da discutere!

Apriamo comunque la discussione... 

1 commento:

  1. Commento qui dato che il Bagnai censura senza risparmio, nonostante che qui inviti al dialogo: quello che dice su inflazione e redditi e' una paccata di fregnacce insensate da keynesiano (di m.). In realta':
    1. L'inflazione e' un fatto di origine esclusivamente monetaria: + moneta si crea e meno vale. Punto.
    2. Il fatto che l'inflazione possa avere occasionalmente qualche correlazione con la quota salari (che sono tutt'altro che salari reali) e' dovuta all'intervento delle Banche centrali e al conseguente ciclo di business oltre che all'attivita' sindacale. Non e' certo pompando inflazione che si pompa la quota salari come sembra suggerire. E viceversa, non e' affatto onesto ridurre i salari con la scusa di voler contenere l'inflazione come si e' fatto per decenni con la scusa della "curva di Phillips", che e' un'altra fregnaccia insensata da economisti accademici servi del potere.

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