Mentre il pericolo di un default greco pare, almeno per il momento rientrato, sono numerosi gli economisti che, pensando al malato ellenico, rievocano la bancarotta argentina come lezione da cui trarre esempio. Per fare questo è necessario un passo indietro.
Era il 21 dicembre del 2001, quando l’allora presidente Fernando De Rua al culmine della crisi economica rassegnò le sue dimissioni. In quei giorni, le proteste popolari in Plaza de Mayo avevano raggiunto un livello tale di violenza da costringere De Rua a abbandonare la Casa Rosada in elicottero. Nei dieci seguenti, gli argentini videro succedersi alla testa del governo ben quattro presidenti. Fino all’arrivo di Eduardo Duhalde, che nel giro di poco fu costretto a svalutare il peso e dichiarare il default del paese.
Ma questo fu solo la punta dell’iceberg di anni di mal governo che aveva portato il paese nel baratro. Debito pubblico alle stelle, iperinflazione, disoccupazione e povertà diffusa erano i sintomi più evidenti di una malattia che aveva gettato i primi semi nel decennio precedente. Negli anni Novanta, nel tentativo di domare un’inflazione galoppante, l’Argentina decise di legare il valore del suo peso al dollaro americano in una strategia di "convertibilità" che si rivelò insostenibile a causa di aumento dei tassi di interesse globali. Per ricevere nuovi finanziamenti dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi), il paese avviò una massiccia politica di privatizzazione, che ebbe come effetto principale un’impennata della disoccupazione. Nel 1999, era chiaro alla maggior parte degli economisti che l'Argentina stava marciando inesorabilmente verso un default e svalutazione.
Da allora, l’economia sudamericana è riuscita a rialzare la testa. Ma a quale prezzo? Come spiega Jaime Abut, consulente di Rosario, "Il default non è un evento privo di conseguenze. E questo l’Argentina lo sa bene, visto che da allora il paese non ha più avuto accesso al mercato mondiale del credito. Insomma, dal 2001 Buenos Aires non è più considerato un paese serio".
Il caso della Grecia presenta molte analogie con il default argentino d’inizio millennio. Entrambe le economie sono entrate in crisi principalmente per gli stessi motivi. Tra le fila degli analisti sono tuttavia numerosi coloro che ritengono che un’eventuale bancarotta di Atene si rileverebbe un evento più tramautico rispetto a quello vissuto da Buenos Aires.
L’Argentina era, e tuttora resta, un grande esportatore di prodotti agricoli, fattore che garantisce al paese un surplus nella bilancia commerciale. Al contrario, gran parte dell’economia greca, in perenne deficit commerciale, ruota intorno ai servizi e al turismo. Senza contare che, fino allo scorso anno, ovvero prima del piano di austerità imposto dalla Troika, il settore pubblico rappresentava circa il 40% della sua economia.
Non finisce qui. Anche mettendo a confronto lo stato delle finanze statali argentine nel 2001 con quelle attuali greche, è quest’ultima a uscirne con le ossa rotte. Al momento del default, il paese sudamericano mostrava un rapporto deficit/Pil al 3,2% contro il 9,6% stimato da Atene per il 2011. Le cose non migliorano quando si passa al capitolo debito. Secondo le ultime stime dell'Eurostat, l’ufficio statistico europeo, il rapporto debito/Pil della Grecia nel terzo trimestre 2011 si è attestato al 159,1%, un dato di gran lunga peggiore rispetto al 54% mostrato dall’Argentina al momento del default.
Al di là dei numeri, a parere di molti la vera spina nel fianco di Atene è paradossalmente proprio l’appartenenza alla zona euro. E così, a meno che il governo non compia un passo senza precedenti, ovvero l’abbandono di Eurolandia, la Grecia non potrà far ricorso allo strumento che ha permesso all’Argentina di uscire dalla tempesta in cui era finita, ovvero la svalutazione della sua moneta.
"Al momento, il più grande problema per l’economia ellenica è che ha una moneta troppo forte, che non rispecchia la produttività del paese", sottolinea Eric Ritondale, economista senior presso Econviews, una società di consulenza. Una tesi condivisa da Nouriel Roubini, l’economista che per primo predisse la crisi finanziaria del 2008 e che qualche mese fa dalle colonne del Financial Times non esitò a indicare il default, e quindi il ritorno alla dracma, come l’unica strada in grado di far ripartire l’economia ellenica. "Sarebbe senza dubbio un processo traumatico, ma solo attraverso massiccia svalutazione della valuta, Atene riuscirà a recuperare la competitività e tornare a crescere".
Nonostante i problemi di accesso al credito, che tuttora restano irrisolti, l’Argentina ha recuperato rapidamente sul fronte della crescita. Dal 2003 il Pil argentino ha segnato progressi medi annuali intorno all’8% annuale a fronte del -10,9% segnato nel 2002. Una serie di fattori hanno contribuito alla rinascita argentina. Oltre alla svalutazione del peso, di cui hanno beneficiato numerosi settori industriali (in particolare il comparto automobilistico), il ritorno alla crescita del paese sudamericano è stato favorito dall’incremento dei prezzi delle materie prime agricole, ed in particolare della soia, di cui l’Argentina è uno dei principali esportatori mondiali. Negli ultimi anni, i prezzi della soia sono letteralmente schizzati, passando da 200 agli attuali 500 dollari alla tonnellata.
A differenza di Buenos Aires, Atene non può far leva sull’export di prodotti agricoli. Ma secondo gli economisti l’esempio argentino può rivelarsi utile per la Grecia quando si passa ad analizzare la ristrutturazione del debito.
Il governo argentino ha aspettato fino al 2005, quando la sua economia era già in recupero, per portare avanti la prima delle due ristrutturazioni del debito. Gli investitori stranieri privati – tra cui fondi pensioni italiani, giapponesi e statunitensi – sono stati costretti a rinunciare a due terzi del vlore nominale dei bond argentini, caricandosi così il peso del mancato salvataggio. L’unico creditore che è stato rimborsato per intero, nel 2006, è stato il Fondo Monetario Internazionale, a cui l'Argentina doveva 9,8 miliardi dollari per prestiti risalenti agli anno Novanta.
Una lezione che la Grecia deve tener presente è che "a differenza dei creditori privati, quelli ufficiali, come il Fmi, non sono disposti a fare sconti", ha detto Robert S. Koenigsberger, Chief Investment Officer di Gramercy, manager investimento sui mercati emergenti manager.
Da quando ha ripagato il Fmi, l'Argentina non ha più preso in prestito mezzo dollaro dall’istituto di Washington. E secondo gli esperti, qualora in futuro il paese dovesse tornare a bussare al mercato internazionale del credito, probabilmente si ritroverà a pagare tassi di interessi doppi rispetto a quelli del vicino Brasile.
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