lunedì 20 febbraio 2012

Art.18: tutto quello che avreste voluto sapere


Tutto quello che avreste voluto sapere sull’articolo 18 (e che nessuno vi ha detto perchè non gli conveniva)

Ci stanno provando ancora una volta. Quello che non riuscì a fare Berlusconi nel 2002 prova adesso a farlo Monti.
Approfittando della “crisi”, del consenso al governo di tutte le forze politiche, del momento di smarrimento in larga parte della popolazione italiana, Monti cerca di abolire l’articolo 18. Contro questo attacco, che sta andando avanti da mesi e che si concretizzerà a breve nella “riforma del mercato del lavoro” che il governo vuole chiudere per fine marzo, dobbiamo mobilitarci ad ogni costo. Ne va del nostro futuro e della nostra dignità. Ma per opporci con efficacia dobbiamo capire bene qual è la posta in gioco. Infatti sia da parte dei padroni che dei sindacati confederali è stata fatta molta disinformazione sul tema. Vediamo bene perché e come stanno davvero le cose.
  
                                                                          Partiamo dall’inizio: cos’è l’articolo 18?

L’articolo 18 è un articolo dello “Statuto dei lavoratori”, la legge che regola le norme sul lavoro, approvata nel 1970, in un momento in cui i lavoratori erano abbastanza forti da imporre ai padroni ed allo Stato il rispetto di alcuni loro diritti. L’articolo 18 regola la “reintegrazione sul posto di lavoro”: nelle aziende con più di 15 dipendenti, in caso di licenziamento illegittimo (cioè ingiustificato, eff ettuato senza comunicazione dei motivi o per discriminazione), si può fare causa al proprio datore di lavoro. Se viene appurato che si è stati licenziati senza “giusta causa”, l’articolo dispone che il lavoratore sia reintegrato nel posto di lavoro e recuperi le mensilità perse (cioè i soldi dello stipendio che avrebbe ricevuto se non fosse stato licenziato). In alternativa allo stesso lavoratore è concessa la facoltà di optare per il risarcimento del danno (mensilità perse più un indennizzo di 15 mesi). Questa possibilità è stata pensata per consentire al lavoratore di evitare di dover tornare in un ambiente lavorativo che potrebbe essere ostile.


Quanti lavoratori tutela?

Al momento attuale l’articolo 18 copre circa il 65,5% dei lavoratori dipendenti. Ovvero, su quasi 12 milioni di operai e impiegati presenti in Italia, quasi 7,8 milioni possono beneficiare di questa tutela. È ancora poco, se si pensa che altri milioni di lavoratori - in particolare immigrati e giovani - non beneficiano di questa tutela, perché lavorando a nero, con contratti precari, ricattati fino a firmare le “dimissioni in bianco” al momento dell’assunzione, sono esposti all’arbitrio del datore di lavoro che li licenzia quando vuole. Ma è una misura importante, di civiltà, che riguarda la maggior parte dei lavoratori italiani e dovrebbe semmai essere estesa a quelli che non ce l’hanno, perché ancora più sfruttati. 
 

Le menzogne che ci stanno raccontando

In questi mesi padroni, giornalisti interessati e politici hanno sostenuto che il problema dell’Italia è la “rigidità”, ovvero che non si può licenziare facilmente. Fermo restando che la crisi italiana dipende sia da una crisi del capitalismo a livello internazionale, sia da altri motivi (corruzione e cattiva gestione del denaro pubblico, incapacità del nostro sistema di competere, speculazioni etc), e non è certo responsabilità dei lavoratori, questa è una vera e propria menzogna! Il licenziamento per “motivi economici” esiste dal 1966. Un’azienda in crisi può sempre licenziare il lavoratore. Anche un’azienda che tramite l’acquisto di macchinari ha bisogno di meno lavoratori, li può licenziare. Si chiama “giustificato motivo oggettivo”, ma deve essere dimostrato dal datore di lavoro davanti ad un giudice. Questo per evitare imbrogli delle aziende, già frequentissimi (“finte” crisi, cessione di rami di impresa, “scatole cinesi” etc).

Esiste poi anche il “giustificato motivo soggettivo”, ovvero la possibilità del padrone di licenziare un lavoratore perché assenteista (cioè se non si presenta al lavoro senza fondati motivi medici) o insubordinato (se si rifiuta sistematicamente di seguire le mansioni per cui è stato assunto)... Quindi i datori di lavoro già hanno tutti gli strumenti di cui dispongono per fare funzionare bene le proprie imprese, o no?
 

Il non-detto dei padroni e di CGIL-CISL-UIL: perché vogliono togliere l’articolo 18?


Il governo Monti è espressione del grande padronato italiano e va a braccetto con Confindustria. Tutti questi soggetti premono per cancellare l’articolo 18 dicendo che il “mercato del lavoro” va riformato perché “non funziona” e dicono che se si fanno queste riforme l’Italia ricomincia a crescere. Questa affermazione viene ripetuta ovunque, ma viene sempre lasciata nel vago, non si spiega mai quale sia il meccanismo che dovrebbe portare alla crescita. Nel frattempo cercano di mettere contro i lavoratori “non tutelati” e i “tutelati” come se fosse colpa dei “vecchi” lavoratori se i “giovani” stanno così male.

Da parte loro i sindacati dicono che “non è vero”, che levare l’articolo 18 non serve alla crescita, salvo poi incontrare ogni due secondi il governo e affermare che sono disposti a trattare. Non dicono così ai loro iscritti l’amara verità:

1. che le politiche prima di concertazione poi di vera e propria sottomissione di cui sono stati complici negli ultimi decenni hanno causato questa debolezza dei lavoratori nel rivendicare i propri diritti;

2. che nel sistema capitalistico il lavoro è esattamente come una merce. Una merce di cui oggi, in tempi di crisi e disoccupazione, c’è abbondante offerta. Quindi questa merce, per essere acquistata dai capitalisti, deve o costare di meno (cioè il lavoratore deve essere pagato meno) o essere più produttiva (cioè il lavoratore deve lavorare più intensivamente, secondo ritmi più veloci).

In questo senso il primo motivo per cui i padroni vogliono abolire l’articolo 18 è tutto materiale. La sua abolizione inciderebbe tantissimo sulla produttività. Se posso licenziarti, quando diventi vecchio o non produci come io ti dico di fare, ti ricatterò: se non vuoi essere cacciato accetterai qualsiasi condizione. Anche perché la maggior parte dei lavori di oggi non necessita di chissà quale formazione particolare (sia in fabbrica che negli uffici, che nella logistica o in un call center). E la gente è disposta a tutto pur di lavorare. L’unico limite oggi trovato dai padroni è nella contrattazione nazionale, nelle forme del diritto e nelle leggi strappate quando i lavoratori erano più forti. Ma quello che è stato fatto in questi anni sui giovani che entravano nel mercato del lavoro andava già nel senso di abbassare il costo del lavoro per le aziende, e proprio con la complicità dei sindacati!

I padroni infatti si muovono su tutto il pianeta per cercare il posto dove si possano pagare di meno i lavoratori e farli lavorare di più. Il costo del lavoro è per loro la prima spesa che incide sui profitti: tagliarla diventa essenziale, anche a costo di andare fino in Cina! Fra l’altro il costo del lavoro non è come quello delle macchine, che si ammortizza nel tempo: è sempre un costo vivo, che ogni mese va retribuito. Monti, Confindustria e gli altri borghesi hanno ragione a dire che bisogna “levare le rigidità” per attrarre investimenti e dare lavoro. Solo che quello che non dicono è che il prezzo da pagare è lo schiavismo! Una volta che in giro ci sono gli schiavi, pagati nulla e cacciati fuori in qualsiasi momento, non sorprende affatto che qualche indice di occupazione possa aumentare!

Oggi le controversie legate all’articolo 18 non sono molte. Secondo gli ultimi dati forniti dall'Istat, riferiti al 2006, parliamo di circa 8.651, di cui circa la metà – dopo anni di spese – si concludevano a favore del lavoratore, il quale peraltro non rientrava quasi mai in fabbrica, perché sapeva che il datore di lavoro avrebbe cercato di ostacolarlo in ogni modo. Ma se l’articolo 18 venisse abolito, gli scrupoli dei padroni ad imbarcarsi in una lunga causa e in spese di avvocati scomparirebbero subito…
 

L’altro motivo: quello ideologico


Esiste anche un altro motivo per cui si vuole abolire l’articolo 18, ed è ideologico. Il Governo e la borghesia italiana vogliono dimostrare all’Unione europea ed ai capitalisti stranieri che in Italia si può venire a investire, perché oramai i lavoratori non contano nulla, non fanno più paura, sono più mansueti delle pecore. Vogliono anche intimorirci per le battaglie future, e dare ai lavoratori una sonora sconfitta su una delle poche mobilitazioni vincenti di questi anni, quella del 2002. Per loro è un totem da distruggere, che ha un enorme valore simbolico. E per farlo sono disposti a mobilitare ogni risorsa, a pagare opinionisti, politici, sindacalisti.

Inoltre l’abolizione dell’articolo 18 risponde ad un’altra necessità padronale: eliminare dalle aziende ogni personalità ribelle ed ogni avanguardia di lotta. Il messaggio deve essere semplice: appena rompi le palle, su orari, condizioni di lavoro, diritti etc, sei fuori. Al padrone basta buttare fuori dieci persone pagando un indennizzo per avere una fabbrica pacificata e disciplinata.
 

Morale della favola…


La morale della favola è che è inaccettabile assumere come piano di discussione quello dei padroni. Quando si parla di “crescita” dobbiamo sempre intendere “profitto dei padroni attraverso la crescita dello sfruttamento”. Una volta assunto questo piano, infatti, hanno sempre ragione loro. Questo è stato ed è ancora l’errore dei sindacati confederali, che ormai non riescono più a strappare neanche le briciole! Se ci si mette su questa strada, di compromessi al ribasso e di inciuci, l’unico risultato è la sconfitta ed un progressivo imbarbarimento. Uno scenario in cui saremo tutti in guerra contro tutti, e solo per sopravvivere.
 

Ci sono altre strade!


Ora, posto che gli interessi di capitale e lavoro sono sempre inconciliabili, e che i margini di ogni ipotesi di “riforma” di questo sistema si stanno esaurendo (infatti con i patti di stabilità, l’impossibilità di fare politiche sociali ed espansive, il commissariamento dell’UE, che politiche alternative si possono mai fare?) i padroni ci stanno dicendo un sacco di stronzate. Non siamo - come ci vogliono far credere - allo “stadio finale”, non è vero che o facciamo queste riforme o l’Italia è destinata a fallire. L’Italia è uno dei paesi più ricchi al mondo, che ha enormi rendite e patrimoni familiari, che ha un’evasione fiscale di 140 miliardi l’anno, che ha tantissime storture che possono essere corrette senza toccare sempre i soliti. Se il governo avesse voluto stimolare la "crescita" senza necessariamente colpire sempre i lavoratori, avrebbe potuto, per esempio, incominciare dal recupero di parte dell’evasione – senza nemmeno darla ai lavoratori o spenderla in misure sociali! – ma usandola per ridurre il cuneo fiscale, cioè quella parte di soldi che le imprese versano in tasse. Il lavoratore avrebbe avuto così la stessa busta paga e gli stessi diritti, l’imprenditore avrebbe guadagnato invece margini più alti e sarebbe stato incentivato ad investire... non è un caso che questa proposta venga anche dagli ambiti liberali più progressisti!

Certo, alla lunga anche questa misura non risolverebbe nulla, come dimostrano i paesi capitalisticamente “avanzati”: alla fine si deve sempre cercare di sfruttare al massimo il lavoro e quindi ricomincerebbe la competizione verso il basso. Ma quello che è certo è che oggi le strade non sono chiuse, non è vero che “o si fa così o altrimenti siamo tutti morti”. Semmai il problema è che i padroni ed i politici non vogliono puntare a recuperare l’evasione tassando, commercianti, palazzinari, ordini professionali etc, perché temono di perdere quel consenso. Sanno che questi ceti arroganti, spesso mafiosi, sono loro “fratelli” e sono anche pronti a difendere i loro privilegi in ogni modo. “Esagerare” nel recupero dell’evasione creerebbe un sovvertimento ingestibile. Meglio dare altre mazzate al proletariato, no?

Insomma, l’esperimento per il Governo e Confindustria ora è quello di vedere: quanto li riusciamo a fottere prima che si ribellino? Fino adesso sembra che gli stia andando bene…
 

Lo scenario che ci possiamo aspettare


Senza una forte mobilitazione popolare contro questo governo, si delineerà questa soluzione di compromesso, drammatica per i lavoratori. Si eliminerà cioè l’articolo 18 per i nuovi assunti o, come pare sia emerso dal presunto incontro tra Monti e Camusso, per i neo-stabilizzati (almeno per i primi 3 o 4 anni) e per le nuove aziende (start-up e investimenti esteri), il che non cambia di molto la sostanza. In questo modo, gradualmente, questa tutela andrà a sparire, si metterà un muro fra le generazioni, per cui i “vecchi” non si mobiliteranno perché tanto non vengono toccati e i “nuovi” non protesteranno perché o sono affamati di lavoro (magari sono impiegati con contratti precari quindi per loro non cambia nulla) o perché una tutela del genere non l’hanno mai conosciuta e non sanno nemmeno che si può avere. Questo permetterebbe al governo di non portare a fondo lo scontro sociale, e ai sindacati di dire che loro non hanno eliminato l’articolo 18, ma magari lo hanno semplicemente “congelato”. Anche se sul medio e lungo periodo saranno destinati a scomparire, o meglio a trasformarsi completamente in agenzie di servizi tipo CAF e Patronato, ipotecando definitivamente la possibilità che qualcuno riesca ancora ad utilizzare il sindacato come possibile "luogo" per far vivere vertenze e in generale la difesa degli interessi dei lavoratori.
 

Perché bisogna mobilitarsi?


Se come dicevamo prima ci sono ancora dei margini, cioè non è vero che ci dobbiamo per forza “sacrificare” noi, il dato da trarne è che bisogna subito impegnarsi. Questa è una certezza: più ci impegneremo, più gli daremo filo da torcere, meno perderemo. Devono recuperare produttività, devono attrarre investimenti, ma, se riusciamo a mettere un argine, i soldi per fare queste cose li andranno a prendere altrove.

Ancora una volta la stessa borghesia ci insegna come fare: quando a rischio ci sono i suoi interessi, si mobilita unitariamente, in maniera fortissima, a livello internazionale, pensando al suo interesse complessivo, come classe. Anche noi dobbiamo fare così: difendere tutto il salario (sia quello diretto, che quello indiretto – cioè i servizi sociali – che quello differito – cioè le pensioni) e tutti i diritti che ci sono rimaste. Ma non per “conservarli” per pochi, ma per allargarli anche a chi non ne ha! Questo vuol dire pensare a “noi” come classe: mettere davanti a tutto gli interessi collettivi e non della propria generazione, della singola categoria, compartimento, azienda o addirittura del singolo individuo!
 
Come farlo?

È evidente che non possiamo aspettare i tempi, le concertazioni e le finte partenze dei sindacati o “subire” le scadenze rituali. Dobbiamo iniziare da subito ad organizzarci, direttamente, indipendentemente dalle appartenenze. Dobbiamo stare in tutte le mobilitazioni in difesa dell’articolo 18, appoggiare tutti i momenti di possibile ricomposizione. Nonostante la riforma dell’articolo 18 sia solo UN aspetto della riforma del lavoro, per l’importanza che riveste è LA questione su cui tutti dovremmo lavorare nelle prossime settimane. Anche perché il Governo ci detta i tempi: un mese e i provvedimenti saranno approvati…
 

Nel nostro piccolo…

 
Secondo noi una delle prime cose da fare è prendere parola collettivamente, come classe. Avete fatto caso che tutti – padroni, economisti, giornalisti, politici, dirigenti sindacali – stanno parlando dell’articolo 18, tranne noi, gli unici che subiranno queste misure? Non solo: in questi mesi la voce dei lavoratori è stata fatta sparire. Il nostro primo compito è di farla sentire, di portarla nel dibattito pubblico. Sia per fare arrivare il messaggio alla nostra controparte, per dirgli che non siamo addormentati e cercare di spaventarli un po’ - in fondo sono codardi... Sia per fare pressione sulle dirigenze locali dei sindacati e fargli capire che sull’articolo 18 devono fare casino. Se iniziamo a dire chiaro e tondo quello che ne pensiamo, altri lavoratori prenderanno coraggio e ci seguiranno!

Anche per questo vogliamo mettere su – in brevissimo tempo – una videoinchiesta che faccia sentire la voce dei lavoratori. Perciò chiediamo a tutti voi semplicemente di farvi intervistare. Dovrete rispondere ad una semplice domanda: cosa ne pensate dell’attacco all’articolo 18? Potete anche mandarci brevi messaggi tramite mail o su FB, noi pubblicheremo tutto. Una volta terminata questa videoinchiesta, che speriamo sia ripresa in tutta Italia, la faremo girare ovunque, su tutti i canali che troviamo, per rompere questo muro di silenzio. Per mettere in campo con tutti quelli che ci stanno una serie di iniziative di confronto e di lotta che sappiano coinvolgere la maggior parte della popolazione.

Presto, perché di tempo ce n’è rimasto poco… Ma li abbiamo sconfitti già una volta possiamo farlo ancora!

Eat the Rich – Magnammece o’ padrone!
Collettivo Autorganizzato Universitario - Napoli
Lavoratori della metropoli in lotta CLASH CITY WORKERS

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