martedì 29 gennaio 2013
UNICREDIT alla sbarra per il crac della Divania
AFFARI ITALIANI
Contratti derivati alla sbarra
per il crac della Divania di Bari
Martedì, 29 gennaio 2013 - 10:51:00
di Marco Scotti
Mentre l’affaire Mps getta nuove ombre sui contratti derivati, c’è una vicenda che vede protagonisti questi particolari prodotti finanziari di cui molto si sa ma altrettanto ancora si ignora, a meno di non essere autentici “esperti”. È il caso della Divania di Bari, un’azienda che nel 2002 occupava, grazie a un fatturato da 70,5 milioni di euro, il settimo posto nella classifica dei produttori di mobili imbottiti (sopravanzando mostri sacri del settore come Poltrona Frau) e che nel 2006 è stata costretta a chiudere i battenti, mettendo in mobilità 430 dipendenti.
Una storia che inizia nei primi anni nel 1998 e che si conclude, con il fallimento della Divania, nel 2006. Nel mezzo, un mare di derivati che Francesco Parisi è stato costretto a sottoscrivere – a volte neanche sapendo di farlo – con Unicredit. Per questo motivo, è stato richiesto il rinvio a giudizio dalla Procura di Bari di venti dipendenti della banca milanese, accusati, a vario titolo, di truffa aggravata e appropriazione indebita. Affaritaliani è in grado di fornire in esclusiva le richieste della procura di Bari e l’informativa della Guardia di Finanza sulla vicenda. L’udienza preliminare, che si è tenuta martedì 22 gennaio scorso, è stata aggiornata all’8 marzo prossimo.
«Unicredit mi ha rovinato! – ha dichiarato ad Affaritaliani.it Francesco Parisi, titolare della Divania – Non sono io a dirlo, si vada a leggere le informative della guardia di finanza, racconti che cosa hanno fatto a me e ai 430 dipendenti che avevo e che ora sono in mobilità. E io ho riportato gravissimi danni cardiaci!». Dal canto suo, Unicredit sottolinea l’esistenza di una sentenza del tribunale fallimentare di Bari datata 27 giugno 2011 in cui si certifica come il dissesto della Divania non sia da imputarsi direttamente alla sottoscrizione, da parte di Parisi, di contratti derivati con Unicredit. Ma evidentemente qualcosa continua a non convincere gli inquirenti, visto che nel novembre dello stesso anno è partita dal tribunale di Bari una richiesta di rinvio a giudizio per 20 dipendenti dell’istituto di credito milanese. Inoltre, c’è anche pendente una causa civile che, se dovesse dare del tutto ragione a Francesco Parisi e alla Divania, vedrebbe Unicredit costretta a risarcire 105 milioni di euro. Ma andiamo con ordine.
Gli strumenti derivati
È la stessa informativa della Guardia di Finanza a spiegare in dettaglio che «i derivati ricavano il loro nome dalla principale caratteristica che li contraddistingue, ovvero che il prezzo di tali titoli “deriva” dal valore di mercato di un’altra attività di riferimento che prende il nome di “sottostante” che si mantiene, però, contrattualmente separata dal derivato stesso». Ma quali sono le caratteristiche che rendono questo strumento una potenziale bomba ad orologeria? Nell’atto citato, la Guardia di Finanza chiarisce che «l’ingegneria finanziaria, nel corso degli anni, ha sviluppato numerosi strumenti finanziari addizionali rispetto a queste strutture tipiche al fine di rispondere in maniera soddisfacente alle più svariate esigenze degli investitori rendendo però, allo stesso tempo, tali prodotti sempre più complessi e con profili utile/perdita (denominati payoff) difficilmente quantificabili da un utente poco esperto. (…) La complessità dei contratti, i costi di informazione ed il grado di cultura finanziaria necessario costituiscono, di norma, un deficit informativo in capo alla clientela degli intermediari la cui intensità è direttamente legata alla tipologia dell’operazione ed alla natura del cliente medesimo. È doveroso inoltre ricordare che il prezzo di uno strumento finanziario derivato negoziato fuori dai mercati regolamentati è un valore di stima poiché fa riferimento ad operazioni per le quali non è disponibile un prezzo ufficiale. (…) Proprio per questo la clientela, soprattutto quella con minore esperienza e conoscenza finanziaria, si trova costretta a riporre massimo affidamento nell’assistenza dell’intermediario con particolare riferimento alla valutazione di adeguatezza e appropriatezza della transazione».
Fin qui la situazione generale. Divania Srl, a partire dal 9 giugno 1998, ha sottoscritto un totale di 189 contratti derivati (ma la richiesta di rinvio a giudizio del Tribunale di Bari parla addirittura di 203). Di questi, 55 solo nel 2002 e 59 nel 2003, quando l’esposizione dell’azienda verso le banche ha iniziato a diventare enorme. Perché l’ha fatto? A suo tempo, Unicredit dichiarò che essi furono sottoscritti per evitare i rischi di cambio legati alle valute estere. L’informativa della guardia di finanza, redatta sulla base di una relazione peritale, sottolinea come «sebbene la Divania fosse esposta al rischio di cambio, legato prevalentemente alle esportazioni che costituivano circa il 99% del proprio fatturato, compensato in minima parte dal rischio (contrario, legato a minori posizioni di importazioni), la stessa società non ha mai evidenziato un’effettiva esigenza di ricorrere alla copertura offerta dagli strumenti finanziari derivati che invece sono stati sottoscritti. In particolare, i CTU (consulente tecnico d’ufficio, ndr) fanno rilevare che, al fine di annullare il rischio di cambio, alla società sarebbe bastato utilizzare una razionale pianificazione della gestione valutaria attraverso il sistema dei finanziamenti in valuta attingendo risorse dalla banca». Ma questo non è avvenuto. Anzi: «tale pianificazione è risultata invece completamente assente ed ha causato addirittura eccedenze di incassi di valuta rispetto ai reali fabbisogni dell’azienda tali da non concorrere alla stabilizzazione del rischio valutario portandone invece la creazione di uno di segno contrario. E ancor più assurda, così come confermato dai CTU, sembrerebbe l’ipotesi che il ricorso agli strumenti finanziari derivati sia stato determinato dalla necessità di coprire una nuova posizione di rischio-cambio originata dall’eccesso di copertura che i finanziamenti ottenuti dalla società hanno di fatto prodotto».
I numeri della Divania
Con 70,5 milioni di euro di fatturato e 430 dipendenti la Divania nel 2000 poteva dirsi un’azienda in salute. Eppure, si legge nell’informativa, «durante il periodo gennaio 2000-giugno 2005 i contratti derivati, oltre a non aver svolto la propria funzione di “copertura”, hanno generato ingenti perdite di cui parte già addebitate alla data del 5.01.2003 sui conti correnti della Divania – e precisamente pari a 2,7 milioni di euro su un totale di 4,5 milioni». Per ammortizzare il solo costo dei contratti derivati, considerando la redditività dell’azienda, sarebbero stati necessari tre anni. Ma se invece della redditività, si fosse preso l’utile di esercizio, che nel 2002 fu di 19000 euro, si capisce subito quanti anni sarebbero stati necessari.
2002
Già in quel 2002, la posizione di Divania viene dichiarata a rischio dagli stessi funzionari di Unicredit. Il che, sempre secondo la Guardia di Finanza «prevedeva la riduzione del profilo di rischio (della banca) attraverso una condotta ben precisa che invece i vari funzionari di Banca non hanno rispettato. Infatti, nonostante il quadro negativo (…) i funzionari di banca hanno continuato a far sottoscrivere alla Divania derivati che non avevano alcuno scopo di copertura. La motivazione ricorrente addotta dagli stessi nel corso delle indagini è stata che quello era l’unico modo per distribuire nel tempo le ingenti perdite accumulate dalla società. Ma il fatto di non addebitare tali costi produceva l’effetto di generare ulteriori guadagni per la banca. (…) Verso la fine dell’anno 2002 la perdita potenziale (perché non ancora manifestata sui conto correnti) dei derivati era di circa 3,5 milioni e agli atti non risultano documenti dai quali si possa evincere una comunicazione di tali informazioni a Parisi».
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