sabato 21 gennaio 2012

Imperativo restituire Bankitalia agli italiani

Il Belpaese è ora governato da aguzzini senza scrupoli, lacchè proni ai diktat degli speculatori internazionali

Bankitalia: da restituire agli Italiani


di: Aliena, RINASCITA

Un venerdì 13, ti svegli e apprendi che una società privata amerikana – agenzia di valutazione Standard & Poor’s, il nome è tutt’un programma – ha stabilito il declassamento del tuo Paese, assieme a quello di mezza Europa, da degno di fiducia a inaffidabile.
Da debitore di serie A a debitore di serie B – e ciò vuol dire minori investimenti nei titoli di Stato, con annesse ripercussioni economico-finanziarie negative. “Potremmo ridurre (ancora) il rating se l’amministrazione tecnocratica fallisce nell’attuare riforme strutturali necessarie per aumentare il potenziale di crescita, sia a causa dell’opposizione di gruppi portatori di interessi speciali, sia nel caso in cui il mandato del governo dovesse venire interrotto prima della scadenza” minacciano dalla suddetta agenzia.
In parole povere: mani in alto, questa è una speculazione. Liberalizzazioni o morte; flessibilità sul lavoro o paralisi indotta; governo tecnocratico o anarchia. Anche le pistole fumanti di Fitch e Moody’s potrebbero gettare ulteriore discredito sul nostro conto, avvicinando pericolosamente l’Italia alla voragine di un default.
Com’è stato possibile giungere a tal punto? Interi popoli tenuti sotto scacco da avidi mercanti, nazioni commissariate da illustri lacchè delle banche, svendita del patrimonio pubblico, povertà diffusa e generazioni senza futuro. Abbiamo la risposta in tasca e – nelle odierne circostanze – il peso della consapevolezza vale oro.
L’aureo metallo, che sino al luglio del 1944 era il bene di riferimento di ciascuna moneta sovrana in circolazione, costituiva la riserva valutaria degli Stati – i quali emettevano banconote in via proporzionale ai propri depositi preziosi. In quella data, presso una remota località turistica del New Hampshire – Bretton Woods – fu tenuta la Conferenza monetaria e finanziaria delle Nazioni unite, cui presero parte i delegati di 44 nazioni alleate. Fu concordato un nuovo ordine monetario, basato sull’unicità del dollaro quale moneta convertibile in oro; tutte le altre valute potevano essere commutate esclusivamente in dollari. Videro la luce il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale – istituzioni operative dal 1946 – e tre anni più tardi, fu sottoscritto a Ginevra l’accordo per liberalizzare il commercio internazionale: Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade), dal ’95 evolutosi come organizzazione nel Wto (World Trade Organization).
In conseguenza degli Accordi di Bretton Woods, “all’inizio degli anni Settanta, l’80% delle riserve valutarie di tutti gli Stati del mondo erano costituite da dollari. Stati Uniti d’America e Inghilterra contribuirono per l’80% alla costituzione del Fmi, e ovviamente ne condizionarono l’attività in maniera determinante. Ma l’Inghilterra non era più quella di una volta, e quindi ne approfittarono gli Stati Uniti che cominciarono a stampare più dollari che giornali, dato che era la loro moneta a garantire l’equilibrio del sistema; ma così facendo ben presto anche il dollaro non ebbe più la convertibilità in oro. Inoltre, i primi biglietti erano dello Stato (recavano la scritta United States), poi a partire dal 1963 diventarono privati, cioè della Federal Reserve. Infine, il 15 agosto 1971, Nixon annunciò – a Camp David – la decisione di sospendere la convertibilità del dollaro in oro e perciò l’abrogazione unilaterale degli accordi di Bretton Woods ‘svincolò’ il dollaro dal cambio con l’oro. Questa data – Ferragosto del ’71 – costituisce una pietra miliare nella storia del denaro: è il momento cruciale per comprendere la vera natura della moneta. Da allora, infatti, il denaro è completamente ‘svincolato’ da ogni relazione con l’oro. Da allora, i paesi hanno continuato a stampare denaro, fondandolo senza una base ‘solida’, cioè sul nulla” [1].
Motivo di tale decisione unilaterale fu il rifiuto, da parte dei paesi arabi dell’Opec (Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio), di accettare il pagamento in dollari; reclamarono oro in cambio del petrolio, oro che non esisteva, poiché il corrispettivo dei verdoni in circolazione era di gran lunga superiore alle 200mila tonnellate di nobile metallo giacenti nei depositi mondiali. “Con lo stardard aureo, questo straordinario incremento globale di liquidità sarebbe stato impossibile a causa della presenza di meccanismi di regolazione automatici. Per esempio, se l’Inghilterra avesse avuto un deficit commerciale persistente con la Francia, l’oro inglese sarebbe finito nei forzieri francesi. Con questo oro la Francia avrebbe potuto proporzionalmente espandere la sua base monetaria in modo da stimolare una crescita economica,
inevitabilmente seguita dall’inflazione. L’opposto sarebbe avvenuto in Inghilterra; essa avrebbe perso parte del suo oro per cui la sua base monetaria si sarebbe ridotta, provocando una contrazione del credito disponibile a cui avrebbe fatto seguito una recessione e, di conseguenza, una discesa dei prezzi. Dopo alcuni anni, a causa dei prezzi crescenti in Francia e calanti in Inghilterra, la Francia avrebbe iniziato a comprare più beni inglesi, mentre gli inglesi sarebbero stati indotti ad acquistare un numero minore di merci francesi, cosicché la bilancia commerciale sarebbe tornata in equilibrio” [2].
Essendo la moneta una convenzione originata dalla necessità di semplificare lo scambio commerciale, va da sé che nel momento in cui al valore indicato sulla banconota corrisponde il nulla, tale scambio diventa una sorta di appropriazione indebita. “Pagabile a vista al portatore”: era la dicitura, riportata sulle banconote ai tempi del sistema aureo, che garantiva un titolo di credito al possessore. In teoria, su richiesta essa doveva essere scambiata con l’equivalente ricchezza materiale detenuta nelle casse dell’istituzione battente moneta. Una realtà sgretolatasi tra i dirupi delle White Mountains – quando al dollaro fu accordato l’esclusivo privilegio di cambio aureo – e svanita del tutto nel 1971.
“Repubblica italiana, biglietto di Stato a corso legale”: la dizione presente su alcune banconote in lire. Indicava che l’Italia era monetariamente sovrana – ossia, lo Stato aveva facoltà di stampare moneta per conto dei cittadini, poiché è il popolo a generare la ricchezza col sudore della fronte. Il capitale della Banca d’Italia avrebbe dovuto quindi essere legalmente a maggioranza pubblica. Eppure, il 55,58% si trova in mano a soli tre gruppi: Intesa (27,2%), San Paolo (17,23%) e Capitalia (11,15%). Altri azionisti, il gruppo Unicredito italiano (10,97%), Assicurazioni Generali (6,33%), Banca Carige (3,96%) e Bnl (2,83%) [3]. Enti privati su cui la Banca d’Italia avrebbe il compito di vigilare.
Cosa succede quando le banche centrali non sono controllate da istituzioni pubbliche? La moneta non è più del governo, tantomeno della collettività. Priva di controvalore materiale, viene stampata al solo costo tipografico e “prestata” allo Stato in cambio di titoli – che costituiscono la quasi totalità del debito pubblico – gravati a loro volta dai tassi stabiliti dalla medesima. Allo scadere di buoni, titoli e certificati emessi dal Tesoro, la banca – oltre ad aver incassato nel frattempo il ricavato della vendita di quest’ultimi – pretende dallo Stato il pagamento complessivo del valore nominale (la cifra riportata sulla cartamoneta) oltre agli interessi maturati. Ergo, il debito pubblico incrementa esponenzialmente. Non essendo, noi debitori globalizzati, in grado di ripagare l’onerosa – ma indispensabile – carta colorata, gli istituti di credito si appropriano dei nostri beni materiali e produttivi: siamo costretti a svendere le nostre aziende statali e avviare la privatizzazione dei servizi.
Per un Paese a moneta sovrana, ove i creditori sono gli stessi cittadini, garantire la copertura del deficit sarebbe un problema fittizio: in tali circostanze, l’aumento dei tributi andrebbe comunque a beneficio del contribuente, confluendo nell’amministrazione dello Stato minimo e di quello sociale. Sino al 1995, secondo la Banca d’Italia, il 90% del nostro disavanzo pubblico era posseduto da investitori italiani. Attualmente, la percentuale in mano ai non residenti è salita al 56%: la Francia ne detiene 511 miliardi (pari al 30% del totale ed al 20% del Pil d’Oltralpe), la Germania 190, la Gran Bretagna 77, seguite da Spagna e Irlanda con – rispettivamente – 47 e 46 miliardi [4].
Come l’Italia abbia accumulato, prima del suo ingresso nell’eurozona, passività a palate, è un’altra storia [5]. In generale, la ricostruzione del deficit si fa risalire all’unità del Paese; nel 1861 venne infatti istituito il Gran libro del debito pubblico e si assommarono tutti i conti in rosso degli ex-stati costituenti.
Differenza essenziale, la natura del denaro; la più deleteria privatizzazione dell’epoca moderna è stata attuata proprio sulla moneta. La banconota privata è un titolo di credito per il debito: l’assurdo e il paradosso prolificano nell’attuale sistema.
Con l’ingresso nell’Unione monetaria, la Bce – di proprietà delle banche centrali dei rispettivi Paesi membri, dunque anch’essa, di riflesso, in mano a privati – dal 2002 ha acquisito l’esclusivo diritto sull’emissione di banconote, stabilendone anche il volume del flusso in circolazione. Il 14,57% del capitale della Bce appartiene alla Banca d’Italia, il 23,40% alla Banca della Germania, il 16,52% alla Banca della Francia, il 15,98% alla Banca d’Inghilterra e così via. In relazione alle quote, vengono suddivisi fra i vari azionisti i profitti o le perdite – se esistenti – della Bce e soprattutto “il medesimo principio si applica alla ripartizione del reddito monetario delle Banche centrali nazionali conformemente all’articolo 32.1 dello statuto, alla distribuzione del reddito di seigniorage” [6].
Reddito di seigniorage, ossia il prodotto delle nostre fatiche, la ricchezza vera con cui ripaghiamo il debito preso in prestito sottoforma di €-cartaccia – stampata a prezzi tipografici irrisori – che finisce nelle tasche di azionisti privati. Ciò è illegittimo, come stabilito il 26 settembre 2005 da una sentenza del giudice di pace Cosimo Rochira, di Lecce. Quanto incassato dalla Banca d’Italia a titolo di “diritto di signoraggio” dev’essere restituito allo Stato [7]. Equivale a dire: Bankitalia pubblica.
Esiste una proposta di legge in tal senso: la n. 6108, presentata dal deputato Teodoro Buontempo il 3 ottobre 2005. In base al principio della proprietà popolare della moneta suggerisce “di introdurre, nei meccanismi relativi all’emissione di moneta e anche agli altri rapporti tra Banca d’Italia e sistema finanziario, un sistema di conti di cittadinanza gestiti senza profitto dalla Banca d’Italia, e in cui vanno versati i frutti del signoraggio. (...) La prescrizione che, raggiunta una certa consistenza del valore del conto di cittadinanza, il valore del deposito sia accreditato al cittadino adulto restituisce continuamente al popolo i frutti del signoraggio e dell’esercizio della Banca d’Italia, rifornendo al contempo il sistema bancario di capitali da gestire per conto del cittadino stesso. Con questo meccanismo la Banca d’Italia e il sistema bancario privato svolgeranno la funzione pubblica della creazione di ricchezza legata all’emissione di denaro a favore degli italiani piuttosto che degli azionisti delle banche” [8].
Siamo nel 2012, a Palazzo Chigi c’è un ex consulente della Goldman Sachs, banca d’affari fra le più potenti del pianeta. Inutile aggiungere altro: l’allucinazione collettiva del debito continua...

IPSE DIXIT

“Dare alle banche la possibilità di creare la moneta è come darsi in schiavitù e pagarsela pure”.
Sir Josiah Charles Stamp (1880-1941), direttore della Banca d’Inghilterra dal 1928 al 1941
“L’attuale creazione di denaro dal nulla operata dal sistema bancario è identica alla creazione di moneta da parte di falsari. La sola differenza è che sono diversi coloro che ne traggono profitto”.
Maurice Allais (1911-2010), Premio Nobel per l’Economia nel 1988


NOTE

[1] Pierluigi Paoletti, analista finanziario e membro del Centro studi monetari (Csm) - Banche, banchieri e moneta: un paradiso per pochi, un inferno per molti. Cfr.: http://cronologia.leonardo.it/biogra2/moneta.htm


[2] Pieraldo Frattini, consulente indipendente in investimenti finanziari – Boom e crisi economiche orchestrate dalle banche centrali. Cfr.: 
http://www.disinformazione.it/crisieconomiche2.htm


[3] Ricerche & studi di Mediobanca 2003, pag 1.149.


[4] “The New York Times”, Europe’s web of debt, 1° maggio 2010. Cfr.: 
http://www.nytimes.com/interactive/2010/05/02/weekinreview/02marsh.html


[5] Per approfondimenti: Roberto Artoni, Note sul debito pubblico italiano dal 1885 al 2001. Cfr.: http://www.delpt.unina.it/stof/15_pdf/15_5.pdf

[6] Decisione della Banca centrale europea del 18 dicembre 2003 relativa alle quote percentuali detenute dalle banche centrali nazionali nello schema per la sottoscrizione del capitale alla Banca centrale europea, Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, 15 gennaio 2003, Comma 4.


[7] Rosaria Amato, Bankitalia restituisca il signoraggio – in arrivo un progetto di legge, La Repubblica, 7 ottobre 2005. Cfr.: http://www.repubblica.it/2005/i/sezioni/economia/banche18/signoraggio/signoraggio.html



[8] XIV Legislatura, Camera dei Deputati, proposta di legge n. 6108 d’iniziativa del deputato Buontempo, pag.2. Cfr.: http://legxiv.camera.it/_dati/leg14/lavori/stampati/pdf/14PDL0077710.pdf

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