mercoledì 13 febbraio 2013

L'euro non è un dogma


Euro: un disastro annunciato
di Marino Badiale, Fabrizio Tringali - 12/02/2013
Fonte: il-main-stream.blogspot 

Scrivevamo un anno fa che le politiche impostate per salvare l'euro avrebbero lentamente avviato l'Italia a diventare un paese del Terzo Mondo (M.Badiale, F. Tringali, “L'euro non è un dogma”, Alfabeta2, dicembre 2011). Gli eventi di quest'ultimo periodo confermano quel giudizio: la crisi economica prosegue, così come la distruzione dei diritti dei lavoratori e l'attacco ai redditi dei ceti subalterni, mentre l'adozione di misure come il Fiscal Compact determina, in sostanza, la cessione della sovranità degli Stati nazionali a lontane strutture oligarchiche e la conseguente cancellazione di quel poco di democrazia ancora rimasta in questo Paese. Non intendiamo qui dilungarci su questi temi, né su quelli relativi alla irriformabilità dell'Unione Europea in senso democratico e alla necessità di uscire da essa e dalla moneta unica, perché li abbiamo trattati dettagliatamente in un libro uscito da poco (M.Badiale, F. Tringali, “La trappola dell'euro”, Asterios editore), al quale rimandiamo per approfondimenti.

Ci sembra utile, invece, ripercorrere in questa sede alcune delle discussioni che hanno accompagnato il passaggio dell'Italia a un sistema monetario europeo a cambi fissi e poi all'euro. È importante infatti sapere che l'esistenza di un rapporto consequenziale fra la rinuncia alla flessibilità del cambio valutario e la realizzazione di una vera e propria macelleria sociale in termini di aggressione ai diritti e ai redditi dei ceti medi e popolari, era stata chiaramente prevista già tre decenni fa.

Agganciare la valuta della Germania a quella di Paesi economicamente più deboli e con inflazione più alta, senza prevedere meccanismi certi ed automatici di riequilibrio fra i Paesi in surplus e quelli in deficit, non poteva non determinare la costruzione di un rapporto asimmetrico: da una parte la Germania e i Paesi forti nel ruolo di leaders, dall'altra i Paesi più deboli nel ruolo di followers, impossibilitati a recuperare competitività e sostanzialmente costretti a riprodurre le politiche economiche e sociali tedesche, con le conseguenze che vediamo oggi, dopo dieci anni di moneta unica (la quale rappresenta il caso “estremo” di sistema valutario a cambi fissi): deflazione, spinta al ribasso dei diritti e dei salari dei ceti medi e popolari, innalzamento della disoccupazione, politiche di rigore destinate a portare il Paese ad avvitarsi in spirali recessive.

Ma vediamo allora alcune delle discussioni svoltesi negli anni Settanta. Dopo la fine del sistema di Bretton Woods, i Paesi forti dell'Europa, come la Francia e soprattutto la Germania Ovest, iniziano a spingere per la creazione di un sistema a cambi fissi tra i Paesi del vecchio continente. Il primo esperimento, il cosiddetto “serpente monetario” non ottiene grande successo. Agli inizi del 1978 inizia ad essere progettato il Sistema Monetario Europeo. A gestire i confronti fra i Paesi europei, e l'eventuale ingresso dell'Italia nel nuovo sistema, è il governo Andreotti IV, un monocolore DC tenuto in vita dall'appoggio esterno del PCI.  In quella fase, il partito di Berlinguer è quindi un interlocutore importante per i ministri che partecipano alle fasi di preparazione dei vertici europei che porteranno alla nascita dello SME.
All'interno del PCI vi sono posizioni diverse, ma in sostanza il partito esprime ben presto la propria netta adesione ad un sistema europeo che porti a cambi fissi tra le valute. Lo stesso fa la CGIL di Lama, nonostante siano chiare le conseguenze per i lavoratori che tale scelta comporta.
Il PCI tenta di mitigare i prevedibilissimi effetti nefasti del “vincolo esterno” costituito dall'appartenenza allo SME, ponendo alcune condizioni, che inizialmente lo stesso governo democristiano assume come proprie. Esse sono riassunte nel discorso tenuto alla Camera dal ministro Pandolfi il 10 ottobre 1978. In sintesi la richiesta è quella di far precedere l'instaurazione della fissità dei cambi da un periodo di transizione meno rigido, e poi accompagnare il regime a cambi bloccati con misure a favore delle economie meno prospere e, soprattutto, con regole capaci di “stabilire, nel caso di deviazione degli andamenti di cambio, una equilibrata distribuzione degli oneri di aggiustamento tra paesi in disavanzo esterno e paesi in avanzo” [virgolettato tratto dal discorso del ministro Pandolfi alla Camera, 10/10/1978]. 

La ragione di queste richieste è semplice: se un gruppo di Stati rinuncia alla flessibilità del cambio valutario, e quindi alla possibilità di operare svalutazioni/rivalutazioni, senza introdurre  meccanismi di riequilibrio fra le economie in surplus e quelle in deficit strutturale, gli oneri dei necessari “aggiustamenti” ricadono tutti sui lavoratori degli Stati più deboli, chiamati ad accettare minori diritti, maggiore fatica e diminuzione del salario, al fine di tentare il recupero della competitività perduta in favore degli Stati più forti (si noti che la “virtù” degli Stati forti consiste molto spesso nella loro maggior capacità, rispetto ai partner più deboli, di mantenere bassa l'inflazione contenendo i salari e comprimendo la domanda interna, esattamente come fa ora la Germania).
Tutto ciò era già perfettamente chiaro a tutti i principali attori politici che discutevano l'eventuale adesione dell'Italia allo SME.
Ma il vertice di Bruxelles del dicembre 1978 vede la sconfitta della posizione italiana. Francia e Germania spingono per dar vita immediatamente al sistema a cambi fissi, e non accettano le proposte della delegazione italiana, limitandosi ad accordare al nostro Paese una banda di oscillazione maggiore rispetto a quella prevista per gli altri (6% invece che 2,5%).
Poco dopo il suddetto vertice, nell'aula della Camera dei deputati si svolge la discussione sulla proposta di adesione immediata dell'Italia allo SME. 
La linea che il PCI aveva tenuto era stata completamente sconfitta, le condizioni poste non erano state accolte, e il partito non può non trarne delle conseguenze. Infatti, nella discussione parlamentare gli esponenti del PCI espongono in modo chiaro i rischi che l'Italia stava correndo.  L'intervento più autorevole, quello del membro della segreteria nazionale, si spinge a sostenere che dal vertice di Bruxelles arrivava la “conferma di una sostanziale resistenza dei paesi a moneta più forte, della Repubblica federale di Germania, e in modo particolare della banca centrale tedesca, ad assumere impegni effettivi ed a sostenere oneri adeguati per un maggiore equilibrio tra gli andamenti delle monete e delle economie di paesi della Comunità”, aggiungendo che “è così venuto alla luce un equivoco di fondo, di cui le enunciazioni del consiglio di Brema sembravano promettere lo scioglimento in senso positivo e di cui, invece, l’accordo di Bruxelles ha ribadito la gravità: se cioè il nuovo sistema monetario debba contribuire a garantire un più intenso sviluppo dei paesi più deboli della Comunità, delle economie europee e dell’economia mondiale, o debba servire a garantire il paese a moneta più forte, ferma restando la politica non espansiva della Germania federale e spingendo un paese come l’Italia alla deflazione”.

È facile notare come i problemi indicati in quel lontano dibattito parlamentare siano esattamente gli stessi con cui ci confrontiamo oggi: infatti il punto è che in regime di cambi fissi, la politica non espansiva della Germania costringe le economie più deboli alla deflazione, cioè all'attacco ai salari. Ed è interessante sottolineare che l'esponente della segreteria nazionale del PCI che dimostrò di aver così chiari i problemi legati all'adozione di un sistema di cambi fissi, rispondeva al nome di Giorgio Napolitano. Non si tratta di un caso di omonimia: è proprio la stessa persona che oggi, dall'alto del Colle, difende a spada tratta l'euro. 
La diversità di questi comportamenti, seppur a distanza di oltre trent'anni l'uno dall'altro, potrebbe stupire. Tuttavia uno sguardo più attento alle vicende del 1978 può farci comprendere che la diversità non è poi così ampia. Infatti, va detto che è sbagliato sostenere, come fanno in molti, che il PCI votò contro lo SME. Il comportamento del partito fu molto meno netto, e ciò rappresentò un chiaro messaggio ai ceti dominanti.
Il gruppo comunista, infatti, chiese, ed ottenne, lo spezzettamento in tre parti della mozione in votazione, e votò contro solo sulla seconda parte (quella che conteneva l'impegno per l'adesione immediata dell'Italia allo SME). Sulla prima e sulla terza parte il PCI si astenne. Non solo: il PCI non aprì immediatamente una crisi di governo (anche se l'esecutivo cadde comunque il mese successivo).
Era chiaro che né il PCI, né la CGIL intendevano fare le barricate contro lo SME, così come iniziava ad apparire evidente che tentare di “mitigarne” gli effetti era impossibile: i Paesi più forti non avevano nessuna intenzione di concedere meccanismi di riequilibrio fra gli Stati in surplus e quelli in disavanzo (esattamente come oggi), ed i ceti dirigenti dei Paesi più deboli non avevano nessuna intenzione di insistere, perché sapevano che la rigidità del sistema avrebbe aperto loro la possibilità di distruggere i diritti del lavoro, abbassare i salari, privatizzare ogni cosa (appunto quello che succede oggi).

Tutto divenne ancora più nitido nel periodo successivo: in primo luogo, il PCI fu allontanato dall'area di governo. In secondo luogo nel 1981 avvenne il “divorzio” fra Tesoro e Banca d'Italia, che privò il nostro Paese dell'effetto calmierante sui tassi di interesse sul debito costituito dall'acquisto dei titoli stessi da parte della Banca Centrale, con l'ovvio effetto di imbrigliare ancora di più la nostra economia e di obbligare il nostro Paese ad affidarsi totalmente al mercato per finanziarsi,  costringendolo a seguire le scelte dei Paesi più forti dell'area SME, cosa che porterà alla crisi del 1992. In terzo luogo venne attaccata con successo la “scala mobile” al fine di abbattere le barriere alla moderazione salariale.
Il risultato del referendum sulla “scala mobile” del 1985 sancì la totale sconfitta della linea del PCI e della maggiore confederazione sindacale: non era più possibile realizzare forme di opposizione “collaborativa” con i ceti dominanti, come quelle realizzate nel “trentennio dorato”, che temperassero le scelte del governo in modo da ottenere risultati positivi per i ceti subalterni. 
I ceti dirigenti italiani ed europei si avviavano sulla strada dell'attacco totale ai lavoratori, ai diritti conquistati, allo stato sociale, al settore pubblico dell'economia.
Il PCI e la CGIL si trovarono quindi di fronte ad un bivio storico: difendere gli interessi dei ceti medi e popolari assumendo posizioni nettamente contrarie al processo di unificazione europeo (che vedeva proprio nello SME il suo fulcro), e avviare così uno scontro molto duro (e dagli esiti imprevedibili) con i ceti dominanti, oppure accettare supinamente le scelte dei ceti dominanti stessi, accantonando le condizioni poste al tempo della discussione sull'ingresso dell'Italia nello SME e proponendosi come forze di governo “responsabili” ed “europeiste”. Sappiamo bene quale strada hanno scelto.

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