DELOCALIZZAZIONI SELVAGGE: ESISTE UN ANTIDOTO?
di Norberto Fragiacomo,
Sul tema delle delocalizzazioni ci siamo soffermati varie volte in passato, definendole – in un articolo pubblicato online la primavera scorsa – “un’offesa alla dignità umana”.
In effetti, questo… peccato capitale del nostro tempo è, anzitutto, un crimine contro la società e l’economia del territorio, e come tale andrebbe severamente perseguito. Purtroppo, in un mondo oramai globalizzato, trovare degli antidoti al veleno è impresa ardua: l’Organizzazione Mondiale del Commercio vigila sulle politiche nazionali, opponendosi a qualsiasi misura restrittiva, e la stessa Unione monetaria ha elevato la libertà (pressoché assoluta) di circolazione delle imprese ad undicesimo comandamento mosaico [1].
Per quanto concerne il Nordest, un caso emblematico – ma già datato – è quello della De’ Longhi, florido gruppo industriale che, nel 2004, decide la delocalizzazione in Cina, allo scopo dichiarato di “contenere i costi” (cioè di incrementare i margini di profitto). Degli altri costi – quelli sociali – ilmanagement si disinteressa totalmente: solo una dura battaglia sindacale, tiepidamente supportata da politici un po’ spaesati, riuscirà in parte a mitigare l’impatto devastante della scelta sulle famiglie dei lavoratori e l’economia locale (specie in realtà medio-piccole, ma non solo, la chiusura di una fabbrica travolge, come un’onda di piena, tutto il tessuto circostante, spazzando via indotto, negozi, attività di ristorazione ecc.). L’affaire De’ Longhi, deflagrato in tempi di vacche relativamente grasse, è già storia: la crisi finanziaria, iniziata tra il 2007 e il 2008, ha moltiplicato il ricorso allo strumento da parte sia di imprese in oggettiva difficoltà – sotto il profilo commerciale e/o creditizio – che di top manager affamati di guadagno facile. A taluni la crisi ha offerto un alibi, ad altri un’entusiasmante opportunità: si pensi ai minacciosi ricatti di Marchionne, finalizzati ad instaurare negli stabilimenti Fiat relazioni di lavoro di tipo cinese. Non fa specie che, al momento opportuno, quasi tutti i commentatori scordino che questo o quell’alfiere del libero mercato sono stati beneficiari, fino all’altroieri, di fondi comunitari, aiuti statali e normative di favore: in un universo senza leggi, la forza si fa diritto e detta regole, comportamenti, sentenze.
A non tener conto della situazione concreta si finisce quindi per smarrirsi nella selva oscura dell’irrealizzabile: di recente, solo la signora Rowling è riuscita, con un colpo di bacchetta magica, a trasformare (a suo vantaggio, però) la carta in oro. Manuali e quotidiani ci dicono oggi, senza neppure volerlo, che il “delocalizzatore” è pienamente tutelato, il dipendente no; dalla cronaca apprendiamo anche, però, che il consenso nei confronti del sistema sta scemando rapidamente. Il camaleonte ha perduto i suoi poteri mimetici, o forse non si cura più di usarli – perché, incurante di chi lo raffigura moribondo, si sente invincibile, e lo proclama pure.
La hybris portò male ai re persiani, e l’eccesso di sicurezza è sovente deleterio, poiché induce ad atti temerari, alla sottovalutazione dell’avversario. Il grande plantigrado è indifferente alla puntura di un singolo insetto, ma uno sciame compatto può volgerlo in fuga, se si accanisce sui punti più sensibili. Per il capitalismo internazionale, la libertà/necessità di superare i confini a piacimento è uno di questi: occorre dunque illustrare i risvolti della questione, stendere proposte, suscitare reazioni e dibattito, sempre tenendo presente che i semi da noi sparsi non germoglieranno in una notte (ma potrebbero dar frutto, un domani, anche nei campi vicini).
Attualmente si discute parecchio della liberalizzazione dei licenziamenti “per ragioni economiche”: visto che la miglior difesa è l’attacco, si potrebbe rilanciare, suggerendo un modo di far risparmiare allo Stato ingenti risorse pubbliche. L’idea è semplice: alla società o all’imprenditore che, senza essere messi con le spalle al muro dalla prospettiva del fallimento, scelgano di delocalizzare in qualsiasi altro Paese (UE o non UE) andrebbe accollato, per legge, il pagamento di due o più annualità aggiuntive di stipendio ai lavoratori espulsi, a titolo di penale. Oltre a ciò, l’impresa sarebbe obbligata a restituire ipotetici contributi ricevuti da Stato ed enti pubblici nel decennio precedente. L’ottica è quella, auspicata da tutti, di distribuire equamente i sacrifici, che gravano oggidì – in via esclusiva – su ex dipendenti ed amministrazione.
Il vantaggio per le casse statali sarebbe notevole, ma – anziché risolto – il problema verrebbe soltanto differito. Nell’eventualità di dismissione di uno stabilimento, lo Stato[2] potrebbe intervenire direttamente, prestando ai lavoratori le somme necessarie per l’acquisto di immobili e macchinari, dopo aver fissato un prezzo equo – nella determinazione del quale sarebbe opportuno considerare alcune variabili, quali la gravità del danno subito dalla comunità, eventuali sovvenzioni ottenute in precedenza dall’impresa, e così via [3]. Per quanto riguarda il rimborso del mutuo, il pagamento della prima rata dovrebbe essere posticipato rispetto alla maturazione degli utili, in modo da consentire alla neonata cooperativa un decollo non particolarmente traumatico.
Ora, in certi casi risarcimento o acquisto coattivo sarebbero di fatto l’unica opzione; in altre eventualità spetterebbe alle maestranze decidere, esprimendosi in favore dell’una o dell’altra alternativa. E il datore di lavoro? Delocalizzando, lui una scelta l’ha già fatta – ed è stata una scelta di troppo.
E’ ragionevole pensare che, malgrado le professioni cartacee di solidarietà, l’Unione non gradirebbe misure siffatte, e che le lobby economico-finanziarie insorgerebbero. Ad accuse mosse in malafede sarebbe agevole ribattere che la “libertà” è responsabilità, non arbitrio o licenza, e che un suo temperamento è sempre legittimo nel superiore interesse dell’utilità sociale; che un disincentivo è cosa ben distinta da un divieto; che, infine, se l’obiettivo è davvero la crescita economica (e non ingrassare i padroni), il “salvataggio” di fabbriche funzionanti e comunità intere dovrebbe essere ben accolto.
Sia come sia, benché le norme comunitarie prevalgano sulla legislazione nazionale, e le sentenze della Corte di Giustizia (?) lascino il segno, tanto le une quanto le altre debbono inchinarsi ai principi fondanti del nostro ordinamento, il primo – e più importante - dei quali recita: l’Italia è una Repubblica fondata sul Lavoro. Non sul profitto, lo sfruttamento e le rapine capziosamente giustificate dai parabolani [4] dell’economia.
In una delle ultime pagine de “Il mio Carso”, Scipio Slataper scrive: “noi vogliamo vivere e lavorare”. Tutto il resto passa in secondo piano.
NOTE
[1] Nella sentenze Viking Line e Laval, entrambe del dicembre 2007, la Corte di Giustizia UE ha difeso il diritto alla libertà di stabilimento per le imprese che vogliono delocalizzare, statuendo che gli articoli 49 (libertà di stabilimento) e 56 (libera prestazione dei servizi) del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea sono invocabili in giudizio dai datori di lavoro a fondamento della loro pretesa di liberarsi da eventuali vincoli – anche derivanti da normative statali di protezione dei lavoratori - che possano limitare la loro libertà di muoversi all’interno del mercato comune.
[2] O la Regione.
[3] In pratica, si ipotizza una cessione d’azienda (o di ramo d’azienda) ai lavoratori, di cui la Pubblica Autorità assume per legge la rappresentanza ai fini del perfezionamento dell’acquisizione.
[4] Monaci cristiani particolarmente fanatici (e, all’occorrenza, sanguinari) che, nell’Alessandria del tardo dominato, costituivano la guardia del corpo del patriarca.
Nessun commento:
Posta un commento