Corruzione, Italia, Argentina
A più riprese mi avete segnalato interventi di noti magistrati che rivendicavano alla loro professione il merito di aver evitato, o almeno ritardato, all’Italia lo scoppio di una crisi debitoria come quella argentina. Secondo questi magistrati, la crisi argentina sarebbe stata una crisi da “debito sovrano” determinata da un eccesso di spesa pubblica, dovuto alla corruzione dei governi in carica negli anni ’90. Tagliando la testa all’idra della corruzione i magistrati del pool Mani Pulite avrebbero scongiurato (o concorso in modo determinante a scongiurare) un esito simile per l’Italia.
A questa opinione ho obiettato da subito che mi sembrava poco informata dei fatti, quanto meno di quelli esteri. Il bilancio pubblico dell’Argentina, nel periodo di gestazione della crisi, era stato in surplus o al più in moderato deficit. L’Italia, al tempo di Mani Pulite, viaggiava su un deficit dell’11% del Pil, mentre l’Argentina negli otto anni prima della crisi è andata da un surplus di 1.5% a un deficit di -2.4%, mantenendosi abbondantemente dentro ai parametri di Maastricht (-3.2% nell’anno della crisi, il 2001, un valore da far invidia perfino alla Germania; i dati vengono da Frenkel e Rapetti).
Ricevo da Roberto Frenkel la segnalazione di un suo lavoro, scritto con Mario Damill e Martin Rapetti, dal titolo “Austerità fiscale in una trappola finanziaria: l’agonia del regime di convertibilità in Argentina”, pubblicato sul sito “Iniziativa per la trasparenza finanziaria”. Ricordo che il regime di convertibilità finanziaria è quello che stabilì il cambio fisso un peso=un marco... pardon, un dollaro! (che sbadato!)
Traduco il riassunto:
Questa comunicazione analizza la politica fiscale nella fase finale del regime di convertibilità argentino, che fu implementato all’inizio del 1992 e crollò con la crisi economica del 2001-02. L’interpretazione più diffusa individua la causa principale e largamente preponderante della crisi nella spesa pubblica. Valutare criticamente questa interpretazione è rilevante sia in termini di analisi storico-economica, sia, cosa più importante, perché ci aiuta ad avviare un dibattito più ampio sugli effetti dell’austerità fiscale in economie fortemente indebitate e depresse. Questo argomento è diventato cruciale nel dibattito su come promuovere la ripresa dell’eurozona e degli Stati Uniti. Nella nostra interpretazione, le radici del crollo dell’Argentina devono essere individuate in un problema completamente diverso: la combinazione di un tasso di cambio reale sopravvalutato e di livelli elevati di debito estero, in gran parte ereditati dagli anni ‘80.
Come dire: il governo in carica nel 2001 in Argentina sarà anche stato corrotto (lo era senz’altro più di molti altri governi, secondo i dati riportati dal database Governance matters della Banca Mondiale), ma una crisi finanziaria non nasce in un giorno, e i numeri forniscono un’interpretazione più articolata della situazione. Insomma: il pool Mani Pulite difficilmente avrebbe salvato l'Argentina. Nel rispetto, nell'ammirazione e nella sincera e profonda gratitudine per il duro e necessario lavoro da esso svolto, c'è quindi da chiedersi quanto abbia potuto contribuire a salvare l'Italia (se l'Italia si è salvata, cosa che non mi sembra così scontata).
Come nota metodologica aggiungo che forse dovremmo deporre un certo tipo di arroganza che consiste nello spiegare ai paesi emergenti cosa è successo, cosa sta succedendo, o cosa succederà a casa loro. Forse ogni tanto dovremmo farcelo raccontare da loro, anche perché penso che mentre certe nostre analisi siano inutili a noi e a loro, molto di quello che loro hanno da dire sia effettivamente utile per capire cosa sta succedendo a casa nostra. E questo vale anche per la gestione del mercato del lavoro.Mi sembra poco rispettoso dare per scontato che paesi di antica o meno antica, ma comunque sempre profonda e ricca civiltà, non possano gestirsi da soli. Direi anzi che mentre per sbagliare hanno avuto bisogno di molto aiuto, la cosa giusta hanno saputo farla da soli.
E nel rispetto di tutte le competenze e di tutte le opinioni, esprimo la mia consueta nostalgia per un mondo nel quale la gente si decidesse a fare quello che sa fare, e non si mettesse a fare quello che fanno gli altri: un mondo dove gli economisti facessero gli economisti, i giornalisti facessero i giornalisti, i magistrati facessero i magistrati, gli storici facessero gli storici, ecc. Da economista devo credere nei benefici della divisione del lavoro, e quindi nel fatto che se ognuno stesse al posto suo alla fine forse staremmo tutti meglio!
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