La schiavitù? Non è finita
di Franco Cardini - 07/03/2012Fonte: Europa
Gabriele Turi ricostruisce la storia del commercio degli esseri umani attraverso le tappe dell’emancipazione. Una storia amara che ci interroga su dove oggi siano finite tante conquiste
Tra gli storici “modernisti” (cioè, a scanso di equivoci, quelli che si occupano di storia moderna) nel panorama accademico italiano di oggi, quella di Gabriele Turi – allievo tra i migliori di Ernesto Ragionieri nella Firenze degli anni Sessanta – è senza dubbio una delle voci più serie, corrette e autorevoli.
Settecentista e Novecentista soprattutto, Turi ci ha regalato un libro molto originale sulle insorgenze antigiacobine in Toscana alla fine del XVIII secolo (Viva Maria, 1999), dimostrando che esse fossero in realtà dirette in buona parte contro le riforme dello stesso granduca Pietro Leopoldo (poi Leopoldo imperatore del Sacro Romano Impero) e una magistrale biografia di Giovanni Gentile; ma il suo lavoro più celebre e forse più meritorio è una solida, informatissima, intelligente monografia dedicata alla genesi dell’Enciclopedia Italiana, pubblicata nel 2002.
Al di là del lavoro scientifico e dell’impegno nella ricerca, vi sono molti modi per incidere sul tempo presente facendo sì che la conoscenza del passato si trasformi in una componente del processo di crescita del senso civico. In questo senso, è esemplare il più recente lavoro propostoci da Gabriele Turi, Schiavi in un mondo libero. Storia dell’emancipazione dall’età moderna a oggi (Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. IX-388): una densa e – sotto la crosta di una prosa mai fredda, sempre però sobria, sorvegliata, nella quale sentimenti ed emozioni dell’autore sono tenuti costantemente sotto intransigente controllo – appassionata ricerca di storia sociale e di storia delle idee al tempo stesso il cui titolo potrebbe, forse intenzionalmente, trarre in inganno.
Una “Storia dell’emancipazione” può lasciar credere, al lettore sulle prime un po’ più distratto, che si sia dinanzi a una rassicurante storia di un progresso, di una liberazione: ma in realtà è così solo fino a un certo punto e anzi, arrivati in fondo, ci si rende conto di quanto una “descrizione”, in apparenza lineare e obiettiva (fermo restando il sacrosanto diritto dello storico di esprimere il suo giudizio, cosa che per sua natura non può essere asettica), può contenere anche al tempo stesso un messaggio problematico capace d’incidere sul tempo presente.
Del resto, chi si avvicini a questo grosso libro con un’attitudine più accorta si rende subito ben conto, a partire dalla citazione a mo’ di esergo di un passo de La sonata a Kreutzer di Lev Tolstoj, ch’è del 1890, che le cose stanno ben diversamente da come potrebbe sembrare.
Intendiamoci: qui ci sono ben ordinati cronologicamente e logicamente tutti i fatti e i dati con i quali si potrebbe costruire una sicura parabola evoluzionisticamente parlando ottimistica: dalla “libertà per pochi” (è mai stata altrimenti? Può mai essere se non altrimenti?) greca e romana alla contestazione – peraltro principalmente nominalistica – cristiana, fino alla costituzione degli Stati Uniti del 1787 che parlando del benessere e della libertà dei cittadini non nomina neppure gli schiavi, che pur c’erano eccome (e ciò per l’ottima ragione che uno schiavo, essendo proprietà di qualcuno, non poteva per definizione essere un cittadino), fino alla rivolta degli schiavi di Haiti del 1791, all’emancipazione nelle colonie inglesi e francesi (1833, 1848), negli Stati Uniti (1865) e in Brasile (1888), e quindi a quelle “definitive” e “conclusive” nei paesi asiatici e africani del Novecento.
Ma anche sistemando secondo una ben ordinata sequenza i provvedimenti legislativi di molti paesi di quello che un tempo si sarebbe definito il “terzo” e il “quarto” mondo, dal Pakistan al Niger, ci si rende conto di quanto ampia sia la distanza tra la lettera delle leggi e la realtà pratica: tanto più che il fondamentalismo musulmano ha immesso, in una dinamica che fino a una venti-trentina di anni or sono poteva sembrare ordinatamente “progressiva”, un forte elemento d’inversione di tendenza giustificata dal diritto islamico e da una tradizione tutt’altro che abbandonata.
Non è casuale, e tantomeno pleonastica, l’espressione “nuovi schiavi” che di solito s’intende in modo solo metaforico e che qualifica un «futuro di sfruttamento più funzionale alle esigenze del capitalismo globalizzato che delocalizza imprese e manodopera» (p. 363). Questo è il punto. Al di là del carattere complesso della storia e del mondo attuale, che non è suscettibile di semplificazioni né di generalizzazioni consolatorie, è proprio a La sonata a Kreutzer che bisogna tornare per rileggere con attenzione quelle righe vergate oltre un secolo fa e ancor oggi dotate di una stupefacente e allarmante validità: «La schiavitù difatti altro non è che lo sfruttamento coercitivo del lavoro di molti da parte di pochi. E perciò, perché non ci sia più la schiavitù, è necessario che gli uomini non desiderino fruttare in modo coercitivo il lavoro degli altri… la schiavitù continua, perché la gente esattamente come prima ama e ritiene giusto sfruttare il lavoro degli altri».
Parole che, se lette con attenzione e confrontate con la storia della colonizzazione e della decolonizzazione (e della ricolonizzazione?) dell’ultimo secolo, bastano a strappare – salvo di quelli che si ostinano a tenersela – quella benda ottimistica che l’ottimismo storiografico e pubblicistico liberal-liberistico ha per troppo tempo legato dinanzi ai loro occhi.
La schiavitù non è scomparsa soltanto quando la coscienza etica e civile degli europei è maturata, bensì quando e nella misura in cui le strutture della società e della produzione sono mutate, suggerendo che le vecchie forme di sfruttamento coercitivo non erano più tanto “disumane” quanto divenute scarsamente remunerative di fronte ad altre. Ed è stata sostituita da nuove forme di schiavitù, parola condannata e aborrita nella lettera eppur mantenuta nella sostanza.
Basta guardarsi attorno: dalle nostre megalopoli agli slums di periferia fino alle piccole questioni del nostro rapporto con extracomunitari e lavoratori “al nero”. Questo libro racconta una storia amara, una storia scomoda, che obbliga a chiederci quanto migliori si sia davvero, noi postmoderni, dei nostri antenati che solcavano i mari frusta e Bibbia alla mano, le stive zeppe di povera merce in catene.
Settecentista e Novecentista soprattutto, Turi ci ha regalato un libro molto originale sulle insorgenze antigiacobine in Toscana alla fine del XVIII secolo (Viva Maria, 1999), dimostrando che esse fossero in realtà dirette in buona parte contro le riforme dello stesso granduca Pietro Leopoldo (poi Leopoldo imperatore del Sacro Romano Impero) e una magistrale biografia di Giovanni Gentile; ma il suo lavoro più celebre e forse più meritorio è una solida, informatissima, intelligente monografia dedicata alla genesi dell’Enciclopedia Italiana, pubblicata nel 2002.
Al di là del lavoro scientifico e dell’impegno nella ricerca, vi sono molti modi per incidere sul tempo presente facendo sì che la conoscenza del passato si trasformi in una componente del processo di crescita del senso civico. In questo senso, è esemplare il più recente lavoro propostoci da Gabriele Turi, Schiavi in un mondo libero. Storia dell’emancipazione dall’età moderna a oggi (Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. IX-388): una densa e – sotto la crosta di una prosa mai fredda, sempre però sobria, sorvegliata, nella quale sentimenti ed emozioni dell’autore sono tenuti costantemente sotto intransigente controllo – appassionata ricerca di storia sociale e di storia delle idee al tempo stesso il cui titolo potrebbe, forse intenzionalmente, trarre in inganno.
Una “Storia dell’emancipazione” può lasciar credere, al lettore sulle prime un po’ più distratto, che si sia dinanzi a una rassicurante storia di un progresso, di una liberazione: ma in realtà è così solo fino a un certo punto e anzi, arrivati in fondo, ci si rende conto di quanto una “descrizione”, in apparenza lineare e obiettiva (fermo restando il sacrosanto diritto dello storico di esprimere il suo giudizio, cosa che per sua natura non può essere asettica), può contenere anche al tempo stesso un messaggio problematico capace d’incidere sul tempo presente.
Del resto, chi si avvicini a questo grosso libro con un’attitudine più accorta si rende subito ben conto, a partire dalla citazione a mo’ di esergo di un passo de La sonata a Kreutzer di Lev Tolstoj, ch’è del 1890, che le cose stanno ben diversamente da come potrebbe sembrare.
Intendiamoci: qui ci sono ben ordinati cronologicamente e logicamente tutti i fatti e i dati con i quali si potrebbe costruire una sicura parabola evoluzionisticamente parlando ottimistica: dalla “libertà per pochi” (è mai stata altrimenti? Può mai essere se non altrimenti?) greca e romana alla contestazione – peraltro principalmente nominalistica – cristiana, fino alla costituzione degli Stati Uniti del 1787 che parlando del benessere e della libertà dei cittadini non nomina neppure gli schiavi, che pur c’erano eccome (e ciò per l’ottima ragione che uno schiavo, essendo proprietà di qualcuno, non poteva per definizione essere un cittadino), fino alla rivolta degli schiavi di Haiti del 1791, all’emancipazione nelle colonie inglesi e francesi (1833, 1848), negli Stati Uniti (1865) e in Brasile (1888), e quindi a quelle “definitive” e “conclusive” nei paesi asiatici e africani del Novecento.
Ma anche sistemando secondo una ben ordinata sequenza i provvedimenti legislativi di molti paesi di quello che un tempo si sarebbe definito il “terzo” e il “quarto” mondo, dal Pakistan al Niger, ci si rende conto di quanto ampia sia la distanza tra la lettera delle leggi e la realtà pratica: tanto più che il fondamentalismo musulmano ha immesso, in una dinamica che fino a una venti-trentina di anni or sono poteva sembrare ordinatamente “progressiva”, un forte elemento d’inversione di tendenza giustificata dal diritto islamico e da una tradizione tutt’altro che abbandonata.
Non è casuale, e tantomeno pleonastica, l’espressione “nuovi schiavi” che di solito s’intende in modo solo metaforico e che qualifica un «futuro di sfruttamento più funzionale alle esigenze del capitalismo globalizzato che delocalizza imprese e manodopera» (p. 363). Questo è il punto. Al di là del carattere complesso della storia e del mondo attuale, che non è suscettibile di semplificazioni né di generalizzazioni consolatorie, è proprio a La sonata a Kreutzer che bisogna tornare per rileggere con attenzione quelle righe vergate oltre un secolo fa e ancor oggi dotate di una stupefacente e allarmante validità: «La schiavitù difatti altro non è che lo sfruttamento coercitivo del lavoro di molti da parte di pochi. E perciò, perché non ci sia più la schiavitù, è necessario che gli uomini non desiderino fruttare in modo coercitivo il lavoro degli altri… la schiavitù continua, perché la gente esattamente come prima ama e ritiene giusto sfruttare il lavoro degli altri».
Parole che, se lette con attenzione e confrontate con la storia della colonizzazione e della decolonizzazione (e della ricolonizzazione?) dell’ultimo secolo, bastano a strappare – salvo di quelli che si ostinano a tenersela – quella benda ottimistica che l’ottimismo storiografico e pubblicistico liberal-liberistico ha per troppo tempo legato dinanzi ai loro occhi.
La schiavitù non è scomparsa soltanto quando la coscienza etica e civile degli europei è maturata, bensì quando e nella misura in cui le strutture della società e della produzione sono mutate, suggerendo che le vecchie forme di sfruttamento coercitivo non erano più tanto “disumane” quanto divenute scarsamente remunerative di fronte ad altre. Ed è stata sostituita da nuove forme di schiavitù, parola condannata e aborrita nella lettera eppur mantenuta nella sostanza.
Basta guardarsi attorno: dalle nostre megalopoli agli slums di periferia fino alle piccole questioni del nostro rapporto con extracomunitari e lavoratori “al nero”. Questo libro racconta una storia amara, una storia scomoda, che obbliga a chiederci quanto migliori si sia davvero, noi postmoderni, dei nostri antenati che solcavano i mari frusta e Bibbia alla mano, le stive zeppe di povera merce in catene.
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