sabato 3 marzo 2012

Jean-Paul Marat e la schiavitù


 LE CATENE DELLA SCHIAVITU’
                              di Stefano Santarelli

                                                              
La grandeur du crime est la seule différence qu'il y ait entre un conquérant et un brigand            
                          J.P. Marat - Les chaînes de l'esclavage  (1774)

Nessun protagonista della Rivoluzione Francese è stato così ferocemente calunniato come Jean-Paul Marat ed è questo un amaro destino per un uomo che forse più di ogni altro ha contribuito a creare la République. Eppure senza di lui ed altri uomini del suo stampo la grande Rivoluzione francese non sarebbe riuscita a sconfiggere l’Ancien Régime e quindi a trasformare il mondo con le sue idee di libertà e di uguaglianza.
Come Napoleone anche Marat in fondo è solo un francese di adozione essendo nato nel 1743 in Svizzera da un prete sardo che si era convertito al calvinismo, infatti l’originale cognome paterno era Mara.
Una gioventù trascorsa in una dignitosa povertà che solo l’abnegazione paterna aveva permesso al futuro rivoluzionario di far compiere e terminare gli studi secondari al collegio di Neuchâtel.
Nel 1759, a sedici anni, lascia la casa paterna per fare il precettore per il figlio di un ricco commerciante di Bordeaux dove inizia gli studi di medicina e due anni dopo giunge a Parigi. Nel 1765 si trasferisce a Londra dove inizia ad esercitare la professione medica. E a Londra il giovane Marat si interessa di argomenti filosofici e politici. Contrariamente ai Montesquieu o ai Voltaire non vede nell’Inghilterra quel regno della libertà che essi decantano, ma al contrario vede il feroce dispotismo del privilegio nobiliare di pochi proprietari terrieri i quali gestiscono il potere a proprio esclusivo vantaggio contrapponendosi alla maggioranza della popolazione che vive in assoluta miseria.
Ed è proprio qui che nel 1774 Marat scrive “Les chaînes de l'esclavage” o meglio “The chains of slavery” visto che questo libro viene pubblicato anonimamente in inglese e solo diciannove anni più tardi questa opera verrà tradotta in francese dallo stesso autore. Siamo ormai nel 1793 l’anno più determinante per la Rivoluzione francese che sarà poi anche l’anno del suo assassinio.
Come si può quindi comprendere “Les chaînes de l'esclavage” non ha avuto nessuna influenza diretta nello sviluppo della Rivoluzione, ma è un testo importante e fondamentale per potere comprendere il pensiero di questo grande rivoluzionario.
“Le catene della schiavitù” si ispira direttamente al “Contratto sociale” di J.J. Rousseau, infatti Marat è pienamente d’accordo con il famoso incipit: “L’homme est né libre e partout il est dans le fers”. Ma dopo questa constatazione del filosofo ginevrino per Marat solo la violenza e l’insurrezione possono rompere queste catene. Questo libro non è un trattato filosofico, ma anzi può essere tranquillamente definito come il primo trattato moderno dell’insurrezione.
Marat è infatti convinto che la pratica rivoluzionaria è necessaria per sostenere le teorie rivoluzionarie. E non è quindi un caso se Babeuf nel settembre del 1794 prende proprio alcune citazioni delle “Catene della schiavitù” per un suo messaggio al popolo francese.
Ma forse il miglior riconoscimento indiretto verso questa opera la possiamo trovare nella biblioteca di Marx dove questo libro ha tutta una serie di annotazioni di sua mano a dimostrazione dell’importanza che il fondatore del comunismo riconosceva per il pensiero di questo grande giacobino.
E anche Engels ricordando la rivoluzione tedesca del 1848 deve rendergli omaggio:

Quando più tardi ho letto il libro di Bougeart su Marat ho scoperto che per più di un aspetto noi non abbiamo fatto altro che imitare inconsciamente il grande modello autentico dell’Amico del Popolo (…) e che anche lui come noi, rifiutava di considerare la Rivoluzione come terminata, ma voleva che essa fosse permanente.” 

Les chaînes de l'esclavage” è un opera fondamentale per potere comprendere il pensiero politico di Marat prima della rivoluzione. Avendo vissuto molto tempo in Inghilterra, molto di più di Montesquieu, conosceva meglio di lui i difetti della costituzione inglese. Una costituzione che dava al Re un potere enorme sul parlamento con la sua facoltà di nominare i Lords e ne critica la limitazione del diritto di voto e la condizione di possidente richiesta ai membri del parlamento.
Ma nonostante questi profondi limiti riconosceva che “al confronto delle altre, la costituzione inglese era un monumento di saggezza politica”.
Ma già in questo testo si possono intravedere le posizioni politiche che Marat esprimerà nel corso della Rivoluzione. Tra l’altro la condanna senza attenuanti della religione ed in particolare del cristianesimo come pilastro fondamentale dell’assolutismo monarchico.
Va sottolineato che Marat chiede l’abolizione della pena di morte, fatta eccezione per alcuni delitti particolarmente efferati. In questo anticipando il primo intervento che Robespierre farà alla Costituente proprio contro la pena capitale.
Questo libro costituisce anche un mezzo per far riflettere lo stesso Marat sul concetto di sovranità del popolo e già qui si intravede la sua grande simpatia per gli oppressi. Infatti emerge con forza la sua profonda indignazione per l’ingiustizia di certe leggi che colpivano con più severità i ceti più poveri della popolazione, denuncia con forza la pessima organizzazione degli ospizi e degli ospedali ed in queste pagine riusciamo già ad intravedere il futuro leader rivoluzionario colui che sarà il tribuno più amato dai sanculotti.
E quindici anni prima della rivoluzione Marat poteva scrivere:

Il male è nelle cose stesse ed il rimedio è violento. Dobbiamo portare la scure alla radice. Dobbiamo far conoscere al popolo i suoi diritti e quindi impegnarsi per rivendicarli; bisogna mettergli le armi in mano, assalire in tutto il regno i meschini tiranni che lo tengono oppresso, rovesciare l’edificio mostruoso del nostro governo e costruirne uno nuovo su una base equa. Le persone che credono che il resto del genere umano ha lo scopo di servirli per il loro benessere indiscutibilmente non approveranno questa soluzione, ma non sono loro che devono essere consultati; si tratta di risarcire un intero popolo dall’ingiustizia dei loro oppressori.”

E non si può assolutamente sottovalutare il suo ruolo anche teorico come si può vedere nel suo Plan de législation criminelle del 1780 dove anticipa il Proudhon che definiva “La proprietà è un furto”:

Il diritto di possedere deriva da quello di vivere; quindi tutto quanto è indispensabile alla nostra esistenza ci appartiene; e nulla di superfluo potrebbe appartenerci legittimamente, mentre altri mancano del necessario. Ecco il fondamento legittimo di qualunque proprietà, sia nello stato di società, sia nello stato di natura.”

Ma con questo non vogliamo però dare l’impressione di un Marat socialista, egli è ovviamente un uomo del suo tempo e certamente si possono vedere nelle chaînes de l'esclavage anche i limiti del suo pensiero politico.
Certo minaccia la nobiltà terriera, l’alto clero, vuole dare la terra ai contadini, ma in fondo non ha nessuna intenzione di abolire la proprietà privata che come insegna anche Rousseau “per natura” spetta a tutti gli uomini. Infatti il diritto di proprietà è per tutti i pensatori politici del seicento e settecento un diritto fondamentale che neanche Marat mette in discussione anzi per questo si oppone duramente alle proposte e alla linea politica degli Enragés.
Certamente nella sua visione sociale egli anticipa tutta una serie di forme di assistenza, di cooperazione o di intervento dello Stato a favore dei meno abbienti, in difesa dei poveri e contro l’arroganza dei nobili e della ricca borghesia, ma il tutto senza mettere in discussione il diritto di proprietà. E dobbiamo altresì ricordare che ci troviamo nel XVIII secolo in una Francia, che al contrario dell’Inghilterra, è un paese con una economia ancora rurale e dove non si trovano  masse operaie, ma solo contadine.
Marat quindi non è un proto socialista, ma è invece un profondo intellettuale e come abbiamo potuto vedere con una prospettiva tutt’altro che provinciale, ma proprio perché è un uomo del suo tempo farà di tutto per entrare nell’Accademia delle Scienze o per avere un titolo nobiliare senza peraltro ottenere tali riconoscimenti. E’ un medico abbastanza stimato tanto che nel 1777 ha la responsabilità sanitaria della Compagnie des Suisses del Conte d’Artois, uno dei fratelli del Re, il futuro Carlo X. Ed è tra i primi a sostenere la possibilità dell’uso terapeutico dell’elettricità.
Ma è anche l’unico rivoluzionario preparato per gli avvenimenti che nel 1789 porteranno la Francia alla pagina più gloriosa e nel contempo più tragica della sua storia. Quando verranno convocati gli Stati Generali da Luigi XVI egli è già un uomo non più giovane avendo 45 anni, mentre Robespierre e Danton sono dei trentenni.
La sua esperienza inglese come fa notare lo storico Albert Mathiez lo porta ad essere estremamente pessimista anche sulla democrazia rappresentativa: “Mentre i francesi del 1789 si facevano le più ingenue illusioni sul valore del sistema rappresentativo, Marat (…) conosceva già molto bene i mezzi usati per dirigere la stampa, fare le elezioni, comprare i deputati ecc. Di qui la sua diffidenza, di qui il suo pessimismo, di qui i suoi giudizi acuti sugli uomini e sulle cose.”

Infatti si può osservare già nelle chaînes de l'esclavage un pessimo di fondo che rimarrà una caratteristica di questo grande rivoluzionario. Ma in fondo è proprio questo pessimismo che contribuisce a renderlo il politico più acuto e lungimirante della rivoluzione e nel 1790 può ammonire in modo realistico che non si può più indietreggiare:

Lo ripeto: è il colmo della follia pretendere che uomini che da dieci secoli hanno la possibilità di dominarci, di derubarci e di opprimerci impunemente, si risolvano di buon grado ad essere soltanto nostri uguali: essi trameranno in eterno contro di noi, fino a che non saranno sterminati; e se noi non prendiamo questo partito, il solo che detta la voce imperiosa della necessità, ci sarà impossibile sfuggire alla guerra ed evitare che noi stessi finiamo per essere massacrati.”

Il suo giornale L'Ami du peuple sarà quindi uno dei principali punti di riferimento dei sanculotti e degli elementi più radicali dei Clubs repubblicani e probabilmente se non fosse stato ucciso dalla mano della Corday forse sarebbe stato l’unico che avrebbe potuto opporsi o attenuare il Grande terrore di Robespierre perché come già ammoniva nelle chaînes de l'esclavage :

per restare liberi occorre stare sempre in guardia nei confronti di chi governa”.


Bibliografia:

J.P.Marat –         Les chaînes de l'esclavage – Union générale d’éditons- 1972

J.P.Marat-           L’amico del popolo – Editori riuniti- 1977

L.R.Gottschalk-   Marat- Dell’Oglio editore - 1964

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