Mario Tiberi
A venticinque anni dalla scomparsa di Federico Caffè abbiamo il compito di “raccontarlo” alle nuove generazioni, che non hanno avuto l’occasione di conoscerlo come professore o pubblicista.
Per questo motivo, insieme ad altri suoi allievi che insegnano nella sua facoltà, quella di Economia della Sapienza, stiamo organizzando un evento per il 24 maggio con la partecipazione di Mario Draghi, il più illustre tra loro.
Posso aggiungere con soddisfazione che, in questo ormai lungo lasso di tempo, non siamo stati i soli ad assumere iniziative volte a ricordarne la straordinaria opera di studioso. Mi limito a menzionare l’intestazione al suo nome della facoltà di Economia di Roma Tre, di un Istituto Tecnico Commerciale sempre a Roma, dell’Auditorium dell’ Università G. D'Annunzio di Pescara, sua città natale.
La complessità della sua vita ha trovato una pregevole descrizione nel libro di Ermanno Rea “L’ultima lezione”, che ha offerto anche lo spunto per un film con lo stesso titolo, diretto da Fabio Rosi, nel quale Caffè era interpretato magistralmente da Roberto Herlitzka. Più recentemente, inoltre, due volumi, curati con ingegno e passione da Giuseppe Amari, hanno racchiuso dati biografici, scritti e testimonianze di e su Caffè. L’origine abruzzese di Caffè ci è stata ricordata dalla giornalista Nadia Tarantini in un libro dedicato ad alcuni grandi della nostra regione, contenente un pezzo nel quale egli raccontava, forse per l’unica volta pubblicamente, alcune vicende familiari. Tra queste colpisce il ricordo della madre Erminia, “persona molto intelligente, quasi geniale, che pur avendo studiato poco aveva un sacro rispetto per la cultura”; immagine efficace, data dalla Tarantini, di una donna nella quale tanti di noi possono riconoscere la propria madre.
Si è, dunque, parlato spesso di lui come di un grande uomo, sebbene a chi lo abbia conosciuto sembrerà paradossale il ripetuto uso dell’aggettivo riferito a lui, che era una persona molto piccola, contraddistinta, tuttavia, da un volto straordinariamente espressivo di ingegno, ironia e malinconia, grazie soprattutto ai suoi occhi vivaci.
Caffè è stato, in effetti, un grande uomo, molto generoso, particolarmente con i suoi familiari (il nipote disabile, la mamma, la tata, il fratello), nonché con gli allievi e i collaboratori del “suo” Istituto di Politica economica, divenuto successivamente Dipartimento di Economia pubblica e, attualmente, Dipartimento di Economia e Diritto. Ai suoi allievi chiedeva rigore, applicazione, capacità di approfondimento, creatività e, soprattutto, il gusto per il dubbio sistematico. Ad essi offriva, inoltre, inestimabili sollecitazioni culturali, durante le riunioni di lavoro: canticchiando pezzi di musica classica; recitando a memoria versi di poesia o brani di prosa; riconoscendo, a prima vista, gli autori di opere d'arte..
Aggiungo che Caffè non era praticante; aveva, allo stesso tempo, uno stile di vita definito da qualcuno francescano, così come gli piaceva richiamare talvolta l'immagine evangelica dello “spezzare il pane per i discepoli”, quando parlava del suo ruolo di divulgatore e di docente. Altra cosa è la fede, riposta nel profondo della coscienza di ognuno di noi, e, al riguardo, non mi sento di affermare nulla di categorico. Ho vissuto una lunga esperienza di vita accanto a persone di famiglia abruzzesi, profondamente religiose, per comprendere l’indubbio rispetto da lui nutrito nei confronti del sentimento che animava, tra gli altri, la sua mamma e la sua tata, donne entrambe longeve. D’altra parte, non posso escludere l’intima ricerca di conforto nella religione in momenti cruciali della sua vita.
Invero la sua visione dell'indagine economica, sostenuta anche dalla sua notevole cultura umanistica, trovava piuttosto fondamento, per dirla con Gramsci, in una sorta di “storicismo assoluto”, al di fuori di ogni provvidenzialismo o determinismo metafisico.
Caffè è stato un grande docente: con le lezioni, preparate scrupolosamente e svolte con seducente voce baritonale, trasmettendo valori e tecniche con molto equilibrio; con gli esami orali, condotti con un’inimitabile capacità di dialogo con gli interrogati; con la scrupolosa e stimolante attività di relatore di tesi.
La sua disponibilità era quasi leggendaria, anche se girerà per il mondo qualcuno degli studenti che ha sperimentato gli scoppi della sua ira, suo incontenibile peccato capitale, come lui stesso affermava, oppure qualche studentessa, che conserva ancora i segni metaforici della sua graffiante ed innegabile misoginia.
L'aspetto che più colpiva in questo ininterrotto dialogo di massa era la sua capacita di capire le ragioni degli altri. Proprio in occasione delle proteste degli studenti, riusciva a trovare, quasi sempre, un punto di contatto con le posizioni estreme, facendosi guidare dall'idea che “non c'e violenza senza sofferenza” oppure, più semplicemente, andando in pizzeria la sera con alcuni di loro e facendosi leggere la mano da una estrosa studentessa; forse a quegli studenti sapeva trasmettere, come saprebbe fare oggi, il suo sdegno “all'idea che un'intera generazione di giovani debba considerare essere nata in anni sbagliati e debba subire come fatto ineluttabile il suo stato di precarietà occupazionale”.
Nell’ambito della sua idea che “divulgazione è signorilità”, come gli aveva insegnato Einaudi, va annotato che la sua presenza a seminari, convegni, conferenze, tenuti in ambienti extra-accademici, in particolare in quelli sindacali o dell'associazionismo volontario, riscuoteva successi memorabili.
Caffè è stato un grande economista, avendo contribuito decisamente all’affermazione della politica economica come disciplina autonoma, ancorata rigorosamente alla teoria economica; solo allora, infatti, “lo spirito pubblico, guidato dalla conoscenza, può essere l’artefice del miglioramento sociale”.
Ha vissuto il periodo fascista, la guerra mondiale, la Resistenza, la fase della ricostruzione, anche in posizioni di rilievo istituzionale; è stato, inoltre, per qualche decennio in Banca d’Italia, svolgendo compiti delicati nel processo decisionale. Aveva, quindi, una conoscenza profonda del capitalismo reale, di quel sistema economico per il quale, a suo avviso, valeva l’illuminante frase di Keynes: “l’incapacità di provvedere un’occupazione piena e la distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e dei redditi sono i difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo”.
Egli era del tutto consapevole della complessità del capitalismo moderno, dominato dalle imprese e dagli intermediari finanziari transnazionali; si rifletta, ad esempio, sulla frase, scritta in un saggio del 1971: “…non è soltanto sul piano delle riforme delle istituzioni e delle procedure che si pone il problema del futuro dei mercati di Borsa. Occorre agire anche nei confronti di coloro che intendono dirigere i risparmi verso le attività finanziarie, mediante un’opera informativa che illustri e documenti il carattere ingannevole o fraudolento delle promesse (alle quali essi si trovano esposti) di ingenti guadagni e di rapida moltiplicazione dei loro averi”.
Il capitalismo storico è diverso da quello ideale, rilevava Caffè, condividendo l’ affermazione di Joan Robinson, la quale, in sintonia con Kalecki, sottolineava che “l'economia moderna si è dimostrata incapace di sviluppare le istituzioni politiche e sociali, sul piano interno come su quello internazionale, che sono necessarie per rendere un durevole pieno impiego compatibile con il capitalismo”.
Egli è stato, infine, un grande intellettuale, non solo per la ricchezza della sua cultura umanistica e musicale, ma perché portatore di una visione complessiva di “un più alto tipo di società”. Caffè, più di altri, ha mantenuto ferma la direzione di marcia, anche quando il travolgente successo del neo-liberismo, a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, ha determinato un forte sbandamento politico e culturale tra le forze riformiste. In quel periodo fu tra i pochi, se non il solo, a mettere vigorosamente in evidenza che il neo-liberismo, almeno per quanto riguardava il contributo degli economisti, riproponeva una datata concezione apologetica dell’istituzione “mercato”, che l’opera di grandi studiosi, nonché l’esperienza storica, avevano secondo Caffè definitivamente ridimensionato, se non liquidato.
Al riguardo, mi pare opportuno aggiungere un ricordo personale, di quando Caffè, camminando lentamente nel corridoio del nostro Dipartimento, mi faceva notare come Keynes preferisse parlare semplicemente di “società economica nella quale viviamo”; mi sembrò di avvertire in quella sua annotazione, non tanto l’invito a cogliere un’interessante attitudine di Keynes, quanto la propria insofferenza verso le controversie nominalistiche, quale, ad esempio, quella sul “superamento del capitalismo”, su cui si sono da sempre concentrate preziose energie intellettuali degli uomini di sinistra, in Italia e altrove. Cio non significava disconoscere l’importanza degli interessi in gioco e delle idee che li alimentano; non a caso, in uno dei suoi articoli più apprezzati, “La strategia dell’allarmismo economico”, segnalava la capacità dei ceti dominanti di condizionare la spinta progressista dei ceti più deboli, facendo ricorso a toni apocalittici ogniqualvolta si profili il serio tentativo di eliminare gli spigoli più clamorosi in fatto di equità.
Ecco perché ritengo che considerare, ed è stato fatto, la sua vicenda umana come una sorta di parabola del riformismo italiano, sia niente di più che una legittima, ma non attendibile, ipotesi letteraria; mentre è altrettanto legittimo, sul piano degli esercizi intellettuali, interrogarsi su quale potrebbe essere la reazione di Caffè rispetto all’arretramento culturale delle forze di quel “riformismo laico” di cui egli si sentiva esplicitamente sostenitore.
Viene da chiedersi, infatti, quale sarebbe oggi lo stato d'animo di Caffè, mentre alcuni dei suoi messaggi più insistenti - l'enfasi da porre più sugli immensi vuoti da colmare che sui limitati eccessi da eliminare nell'operato del Welfare State; il richiamo alla funzione di “occupatore di ultima istanza” che il potere pubblico dovrebbe assolvere - non sembrano trovare grande ascolto.
Qualche consolazione, come gli è capitato durante la vita, potrebbe trarre dagli accenti critici, nei confronti dell'operato del capitalismo reale, che provengono dal solidarismo cristiano; proprio mentre sembra invece smarrirsi, nella cultura laica, la consapevolezza che, come scrive Caffè, “il pieno impiego non è soltanto un mezzo per accrescere la produzione e intensificare l'espansione. E’ un fine in sé, poiché porta al superamento dell'atteggiamento servile di chi stenta a trovare un lavoro o nutre il timore di perderlo”.
I “punti fermi” della concezione riformista di Caffè, sono: “una politica economica che non escluda, tra gli strumenti da essa utilizzabili, i controlli condizionatori delle scelte individuali; che consideri irrinunciabili gli obiettivi di egualitarismo e di assistenza che si riassumono abitualmente nell'espressione dello Stato garante del benessere sociale; che affidi all'intervento pubblico una funzione fondamentale nella condotta economica”. E’ a questa concezione economico-sociale progressista, come la definisce Caffè stesso, che approda il suo lavoro intellettuale; in essa si realizza una mirabile sintesi di etica, economia e storia, che mi piace definire il “riformismo radicale” di Caffè ed è ispirandosi ad essa che si può ancora, a mio avviso, affrontare il futuro, con “l'ottimismo della volonta”, per verificare il suo convincimento “del prevalere inevitabile delle idee sugli interessi costituiti”.
Mi resta soltanto da dire qualcosa sulla scomparsa di Caffè, la sua “ultima lezione”, che, diversamente dalle tante altre seguite, non mi è ancora completamente chiara e ciò ha il sapore amaro di una sconfitta.
(Questo articolo è stato pubblicato anche su Il Velino, periodico della Curia di Avezzano) |
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