Uscire dall'economia
di Serge Latouche - 20/12/2012Fonte: comune-info
L’affermazione della decrescita non serve e non si propone di acquisire un potere, un po’ come l’esperienza zapatista. Anzi, costituisce un contropotere sociale.
Prima di ogni altra cosa, la decrescita è una provocazione, un grido che contesta l’invenzione stessa dell’economia. L’economia, infatti, come la sua controfigura «green» o il lavoro salariato, esiste solo in un orizzonte di senso, quello del capitalismo. È una ragione di speranza in questi tempi? Sì, in alcune città della Grecia e della Spagna, a differenza di quanto accaduto in Argentina dieci anni fa, pezzi di società che subiscono l’austerità hanno cominciato a incontrare gruppi che sperimentano forme di decrescita.
Per questo il potere, che teme il cambiamento profondo dice: «Siate seri, non è il momento di parlare di queste cose»
Cita il suo amico Cornelius Castoriadis e poi il subcomandante Marcos. Parla di fotocopiatrici, di Gruppi di acquisto solidale giapponesi e di un interessante documentario del regista Coline Serreau. Intervistare Serge Latouche è sempre un viaggio piacevole che percorre molti temi, con le sue risposte a volte in francese a volte in italiano. E se gli chiedi di ragionare di lavoro e di lavoratori, come abbiamo fatto noi, è piuttosto probabile che non userà francesismi: «Fare la cassiera in un supermercato è un lavoro di merda».
Considerando quanto sta avvenendo negli ultimi anni, quale rapporto esiste tra l’attuale struttura del potere e i processi della decrescita?
Su questi temi, cioè sulla relazione tra decrescita e Stato, e più in generale tra decrescita e politica, sono stati scritti molti articoli negli ultimi mesi, perché dentro il movimento della decrescita in Francia da tempo ci sono dibattiti su questi argomenti. Anch’io ho scritto un saggio che mi ha richiesto molto lavoro, perché confesso che su questo problema le mie idee non erano chiare. Certo ho scritto spesso sul ruolo dello Stato e sulla politica. Ma alcuni mi hanno accusato, soprattutto persone vicine alle culture e ai movimenti anarchici, di aspettare dallo Stato la realizzazione della decrescita. Allora ho capito che la cosa sbagliata che scrivevo era «la decrescita è un progetto politico». Penso che la formula non sia felice. La decrescita è un progetto sociale, non un progetto politico, Lenin aveva un progetto politico. Tutti quelli che hanno un progetto politico vogliono realizzarlo, per questo la tradizione rivoluzionaria, soprattutto in America latina, resta legata alla presa del potere.
Pensiamo a quando il subcomandante Marcos e le comunità zapastiste hanno preso San Cristóbal de las Casas, in Chapas, il 1° gennaio 1994: la prima cosa che hanno detto è stato: «Non vogliamo prendere il potere perché sappiamo che se prendiamo il potere saremo presi dal potere». Per questo penso che avere un progetto politico sia diverso dall’avere un progetto sociale. Un progetto di una società alternativa deve essere pensato concretamente in funzione del luogo, della cultura dove il movimento agisce, ma il problema è che ha a che fare anche con il potere. Naturalmente è una buona cosa, se alcuni nostri amici diventano deputati, ministri, consiglieri ma sappiamo bene che qualsiasi politico è sempre sottomesso alla pressione dei grandi poteri, non esiste un governo buono…
Per queste ragioni penso che non dobbiamo fare un partito politico per la decrescita e partecipare alle elezioni. In alcuni casi possiamo sostenere dall’esterno un certo programma, oppure un partito, ma il movimento deve essere sempre un contropotere, un gruppo di pressione anche con il più cattivo dei poteri. Perfino quando la pressione è forte possiamo ottenere qualcosa, come dimostra la vicenda dgli accordi di Cochabamba sull’acqua, ottenuti nonostante in Bolvia allora, nel 2000, ci fosse un potere quasi fascista. Quel potere fu costretto ad ascoltare la protesta che chiedeva la cancellazione del contratto con la multinazionale Bechtel. Una grande vittoria. Perciò la strategia deve essere quella dei piccoli passi avanti, anche quando il potere cambia, come nella stessa Bolivia in cui oggi è presidente Evo Morales: la pressione deve essere mantenuta anche contro Morales. Insomma, credo che i movimenti della decrescita oggi debbano mantenere questo spirito di contropotere di ispirazione gandhiana.
Non dico che tutti i partigiani della decrescita condividono questa visione, per esempio alcuni miei amici propongono di non votare più alle elezioni, io invece sono favorevole. Naturalmente sappiamo bene che dalle elezioni non uscirà mai un governo buono; se per caso ci fosse un governo di nostalgici diventerebbe subito un cattivo governo. Su questo punto ho cambiato idea nel tempo: prima condividevo l’idea del mio amico Cornelius Castoriadis, che aveva un progetto politico, la democrazia radicale, che lui credeva possibile costruire… Oggi, invece, credo che quello possa essere soltanto un orizzonte di senso, che non si realizzerà mai. Tuttavia, dobbiamo cercare di realizzarlo ogni giorno. Non possiamo aspettare il cambiamento o la democrazia radicale per agire: dobbiamo utilizzare tutti i mezzi e agire al livello più basso, più concreto, dove si possono fare le cose.
Hai conosciuto esperienze in giro per il mondo che consideri particolarmente valide come strategie per la decrescita?
Non esiste un’esperienza che si può etichettare come la vera esperienza della decrescita, della società frugale o della prosperità senza crescita. Quando ad esempio tre anni fa abbiamo incontrato quelli della Conai, la Confederazione delle comunità indigene dell’Ecuador, a Bilbao, abbiamo capito come la loro concezione del buen vivir è esattamente il progetto della decrescita, se pur in un contesto diverso e nonostante il coinvolgimento dei governi locali. In ogni caso penso che il progetto delle Transition town dell’amico Robert Hopkins, che ha partecipato con me alla Conferenza interazionale sulla decrescita di Venezia, sia l’esperienza che a livello locale realizza meglio ciò che per me corrisponde al progetto della decrescita: sviluppare la resilienza, ridurre l’impronta ecologica, ritrovare l’autonomia alimentare ed energetica. A un livello più limitato credo che il movimento dei Gruppi di acquisto solidale e il loro corrispondente giapponese, quello dei Teikei, che letteralmente significa «il cibo che ha la faccia del contadino», piuttosto che alcune esperienze della Rete francese delle imprese alternative e solidali, siano esperienze che vanno nella direzione del progetto della decrescita.
Se avessimo il potere e la capacità di suggerire delle strategie per la decrescita, cosa bisognerebbe fare tra le cose più urgenti?
Questo è un esercizio di politica virtuale, me lo hanno chiesto anche i verdi greci cosa fare adesso… Credo che la cosa più importante oggi sia cercare di realizzare il programma concettuale delle otto «R», rivalutare, ridefinire, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare, la cui priorità è sintetizzabile con la riduzione dell’impronta ecologica. Ma tra le prime cose da fare c’è la necessità di dare lavoro: per questo ho proposto un programma che poggia su tre piedi rilocalizzare, riconvertire e ridurre. Rilocalizzare l’attività produttiva significa demondializzare e questo implica avere i mezzi per farlo, tra cui l’autonomia finanziaria monetaria. Occorre pensare anche a una politica protezionista: il libero scambio è il protezionismo più forte dei predatori e allora dobbiamo fare un protezionismo dei deboli e progetti di conversione ecologica. La riconversione più importante è quella dell’agricoltura: dobbiamo uscire dall’agricoltura produttivista e sostenere un’agricoltura senza pesticidi e concimi chimici. Su questi temi vengono pubblicati sempre più libri e documentari interessanti.
Il film-documentario Maison du future, ad esempio, è stato pensato in Francia dopo un dibattito alla televisione, nel quale Josè Bovè contestava due esperti di agricoltura secondo i quali è impossibile nutrire il mondo senza Ogm, pesticidi e concimi chimici: gli autori hanno girato il mondo per raccontare esperienze alternative che dimostrano come l’agricoltura più produttiva, e non più produttivista, è quella contadina. Quel film sarà presentato in diversi paesi nei prossimi mesi, dall’India ai paesi latinoamericani. Un altro documentario molto interessante è Solutions locales pour un désordre global, di Coline Serreau, un regista francese molto bravo, che ha messo insieme esempi di coltivazioni alternative dal Brasile all’India, dalla Francia all’Ucraina.
Il progetto delle otto «R» è piuttosto chiaro, ma molti continuano a temere che la decrescita sia soprattutto sinonimo di rinuncia, di ritorno al passato…
È importante far capire alle persone che non si tratta di rinunciare alla lavatrice ma di avere una buona lavatrice, che non siamo obbligati a buttarla ogni due anni per comprarne una nuova, perché subito qualcosa non funziona più. La stessa cosa con il computer. Quelli nuovi sono più veloci? Allora si devono progettare e diffondere, come si faceva all’inizio, computer modificati ai quali aggiungere qualcosa per farli progredire. Un’esperienza importante di questo tipo è quella della Rank Xerox, con le sue fotocopiatrici pensate come dei moduli che si possono prendere e rinnovare. La Rank Xerox oggi vende più servizi di fotocopiatura e meno fotocopiatrici, di cui si prende cura nel tempo. Gettare oggetti pensati per durare poco è un’assurdità, io ho già buttato tre computer. È uno spreco di risorse incredibile. Si può concepire un computer che si può migliorare, che si può riparare e alla fine si può riciclare. Questo discorso vale per tutti i nostri strumenti, è la dimostrazione che si deve ancora sviluppare, si deve pensare la struttura produttiva del futuro meno come industria pesante è più come insieme di piccole imprese, ma anche singli artigiani che lavorano per il riciclo e riuso, per le riparazioni.
Agricoltura, riuso e riciclo, sostenibilità… Alcuni dicono che sono pezzi di un processo, quella della green economy, con il quale il capitalismo si trasforma per sopravvivere. Quali pericoli vedi nella green economy?
Non uso mai l’espressione green economy perché resta nell’orizzonte del capitalismo e questo è un problema. Ho molti amici che non hanno capito oppure non condividono il mio punto di vista quando dico «si deve uscire dall’economia». Il problema è la parola «economia», vale a dire il capitalismo, verde va bene ma economia no, al massimo potremmo dire «vogliamo una società verde». Naturalmente questo significa che si deve ancora produrre e consumare ma non più nella logica economica, utilitarista e quantitativa. È un discorso complesso e difficile da far capire, per questo molto spesso lo lascio dire ai miei amici nel parlare di altra economia, lo accetto come un compromesso. Ma in fondo tutto il mio lavoro, la mia ricerca, il mio pensiero, comincia dal contestare l’invenzione dell’economia, un’invenzione teorica, storica e semantica, dalla quale dobbiamo uscire. Il progetto della decrescita implica l’uscita dall’economia. Allora il discorso dell’economia verde è effettivamente ambiguo: se produciamo pannelli solari a livello industriale, inquinando, come avviene in alcuni casi, siamo di fronte al green business, e questo non può far parte della nostra ricerca.
A proposito di nuova ricerca: c’è il tema del lavoro che sembra ancora poco esplorato. Abbiamo la sensazione che serva una critica più profonda del concetto di lavoro che è stato finora il volano dello sviluppo, cioè del capitalismo. Cosa ne pensi? Come si organizza il lavoro in una fase di transizione come quella attuale?
La riduzione degli orari di lavoro, che è nel progetto della decrescita, è anche un compromesso, una misura transitoria. È un compromesso che può aiutarci ad affontare il problema della disoccupazione, cioè una prima soluzione è lavorare meno per lavorare tutti. Questo è un punto sul quale non dobbiamo transigere. Ma è importante ridurre gli orari di lavoro anche perché l’obiettivo, l’orizzonte di senso, resta la democrazia diretta. Che si nutre anche di trasformazione del lavoro, propone, come obiettivo di lungo periodo, di abolire il lavoro salariato. Insomma, non si può più riprendere il discorso della nobiltà del lavoro quando si fa un lavoro di merda alla cassa di un supermercato… Dobbiamo smettere di pensare a creare posti di lavoro qualsiasi. Dobbiamo prima di tutto mettere al centro il valore dell’autonomia e per questo la forma cooperativa è un orizzonte di senso, è qualcosa che aiuta. Ma anche in questo caso dobbiamo essere consapevoli dei limiti. Lo dimostra pure una mia piccola esperienza: abbiamo voluto fare una cooperativa, una casa editrice sotto forma di cooperativa, ma ho capito subito che sarebbe stato molto difficile, che non poteva funzionare, perché non tutte le persone vogliono essere cooperatori, ci sono alcuni che preferiscono avere il salario, avere un orario di lavoro e basta. Si può capire. Si deve rispettare questo. E allora il problema è che nell’ingranaggio di una società salariale non per tutti è importante la cooperativa. Di certo, resta importante oggi reinventare il lavoro in settori come l’agricoltura biologica e il riciclo e riuso, esistono già esperienze importanti ma restano una nicchia.
La crisi è sufficiente per favorire nuovi stili di vita? Un esempio: quando è scoppiata la crisi in Argentina, dieci anni fa, si sono diffusi i mercati del trueque, cioè il baratto, insieme ad alcune esperienze di moneta locale e alle fabbriche recuperate, ma quando è ripresa la crescita quei mercati e quelle monete sono stati spazzati via…
Non conosco bene quanto accaduto in Argentina, ma è evidente che in quel caso l’uso per un certo periodo di monete complementari o alternative, quasi su scala nazionale, è stato possibile perché la crisi aveva toccato la borghesia, la piccola borghesia. Quando la moneta nazionale è tornata come prima, quell”esperienza è terminata. Nel frattempo gli operai che si erano impossessati di alcune imprese hanno continuato a lavorare in quel modo. Non solo non potevano più tornare indietro, ma speravano in una trasformazione sociale profonda. Ora sembra che in Grecia sia diverso: c’è infatti un incontro tra coloro che subiscono l’austerità e coloro che hanno avviato progetti di decrescita. Qualcosa di simile accade anche in alcune città della Spagna. Allora dobbiamo essere coscienti che la crisi è al tempo stesso un disastro, perché può favorire forme di vero fascismo, ma anche un’opportunità. In Francia, ad esempio, la politica ha totalmente cancellato qualsiasi progetto di alternativa e qualsiasi dibatitto sulla decrescita. «Siate seri, siamo in crisi», dicono, «non è il momento di parlare di queste cose». Un bel modo per rendere invisibile un desiderio diverso di cambiamento.
Nota
- L’ultimo libro di Serge Latouche è Limite (Bollati Boringhieri, 2012). Quello che più mette in discussione la scienza economica in una prospettiva storico-filosofica è L’invenzione dell’economia (Bollati Boringhieri, 2010). Asterios invece ha da poco pubblicato alcuni scritti di Cornelius Castoriadis,La fine della filosofia.
- Per un approfondimento sul tema «città e decrescita», qui solo sfiorato, suggeriamo la lettura di un’altra conversazione con Latouche: La città inedita.
- Per ragionare invece di critica alla crescita in termini molto concreti e con una buona dose di fantasia consigliamo la lettura di Io ho un chiodo, il regalo di Ascanio Celestini per la nascita di Comune-info.
- Infine, per conoscere meglio Solutions locales pour un désordre global segnaliamo il sito dedicato al film: solutionslocales-lefilm.com.
L’intervista è stata realizzata da Riccardo Troisi, Alberto Castagnola, Adriana Goni Mazzitelli e Cesare Budoni.
Nessun commento:
Posta un commento