Come si spiega questo affare in apparenza illogico? Semplice, la compravendita di titoli aveva un solo scopo. Quello di creare un flusso di interessi sul quale Banca Intesa potesse ricavare un credito d’imposta. Insomma, tutto quel giro di soldi non ha nessuna giustificazione economica. È un’impalcatura costruita con l’unico obiettivo di ottenere dei vantaggi fiscali. In estrema sintesi: la banca realizza un profitto milionario e a pagare il conto sono le casse pubbliche.
Parte da qui, da questo gioco di sponda tra Intesa e il Credit Suisse l’indagine che vede tra gli indagati anche Passera, nel frattempo passato dalla poltrona di numero uno del gruppo creditizio milanese a quella di ministro dello Sviluppo. L’inchiesta è stata aperta a Biella perché all’operazione ha partecipato una pattuglia di banche controllate da Intesa. Ognuna si è presa una fetta del profitto complessivo. Tra gli istituti coinvolti compare, appunto, anche Biverbanca, che ha sede a Biella e fino al giugno del 2007 faceva capo alla banca allora guidata da Passera.
Non finisce qui, perché secondo quanto risulta al Fatto Quotidiano all’operazione con il Credit Suisse, o ad altri affari simili a quello, hanno partecipato anche la Banca di Trento e Bolzano, laPopolare Friuladria, la Cassa di risparmio di Terni, quella Ascoli Piceno, quella di Rieti e infine la Cassa di Spoleto e quella Parma e Piacenza. All’epoca dei fatti, cioè la seconda metà del 2006, tutti questi istituti dipendevano da Intesa.
A proposito dell’inchiesta penale ieri il procuratore capo di Biella, Giorgio Reposo, ha voluto confermare l’ovvio con un comunicato in cui afferma testualmente che “l’iscrizione del dottor Passera nel registro degli indagati costituiva un atto dovuto, anche a garanzia dell’interessato”. In effetti il fascicolo aperto a Biella nasce nel 2011 da una segnalazione dell’Agenzia delle Entrate e adesso tocca ai magistrati stabilire se gli atti compiuti dal ministro allora top manager hanno una qualche rilevanza penale. Passera infatti è indagato per aver firmato la dichiarazione fiscale della banca. Niente di più, al momento, mentre proseguono le indagini dei pm piemontesi, che hanno ottenuto una proroga di sei mesi.
Il fatto certo, al momento, è un altro. E cioè che negli anni scorsi alcuni istituti di credito, con Intesa in prima linea, hanno comprato a piene mani quelli che in gergo vengono definiti tax product. Ovvero prodotti finanziari che “sono concepiti per il fine esclusivo di ottenere benefici fiscali abusivi o illeciti a favore di soggetti residenti in Italia”. Questo è quanto si legge nel processo verbale di constatazione nei confronti di Banca Intesa redatto nel giugno 2011 dal Nucleo di polizia tributaria di Milano.
Secondo l’Agenzia delle Entrate le obbligazioni ad alto rendimento emesse dalla società ingleseLa Defense II plc, controllata dal Credit Suisse, altro non erano che tax product. Intesa le ha sottoscritte perché grazie a un complicato meccanismo finanziario (in pratica un pronti contro termine) hanno garantito alla banca un credito d’imposta milionario.
Secondo la ricostruzione della Guardia di Finanza l’operazione con il Credit Suisse avrebbe fruttato 6,4 milioni, pari a un rendimento del 5,5 per cento su base annua. Mica male, se si pensa che quei 300 milioni di euro altro non erano che un investimento virtuale, visto che il rimborso integrale del denaro da parte della controparte, cioè il Credit Suisse, era garantito da un contratto parallelo.
Tutto regolare, tutto secondo la legge, è tornata a ribadire ieri in una nota Banca Intesa. E se nei mesi scorsi l’istituto ha preferito arrivare a una transazione milionaria con l’Agenzia delle Entrate è solo per l’inopportunità di “coltivare procedure contenziose defatiganti ed onerose”. Insomma, meglio chiudere in fretta la questione. Nella speranza, forse, che non se ne parlasse troppo in giro.
da Il Fatto Quotidiano del 4 luglio 2012
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