lunedì 28 gennaio 2013

Il principio della pubblica utilità del credito


Monte dei Paschi, ancora il debito contro il lavoro
di Giacomo Colonna - 27/01/2013
Fonte: Clarissa

Nel 1935, Ezra Pound poteva ancora citare il Monte dei Paschi di Siena come esempio di "un sistema bancario sano", in quanto "i suoi profitti dovevano andare a ospedali ed opere a beneficio del popolo di Siena". Dai primi anni Novanta, la "privatizzazione" ha eliminato dall'ordinamento italiano il principio della pubblica utilità del credito, per cui le banche vengono destinate unicamente a fare profitto. I partiti sono tuttavia riusciti a mantenere il controllo sui capitali delle ex banche pubbliche, scorporando da esse le Fondazioni bancarie.
Così iniziava in Italia il ventennio del trionfo dell'economia del debito, capace di generare nel mondo "derivati" per un valore oltre dodici volte superiore a quello del lavoro annuo di tutta l'umanità. Le Fondazioni, e non solo le banche, hanno partecipato alla speculazione: col risultato che le sole prime 12 Fondazioni avrebbero bruciato, al settembre 2011, ben 10 miliardi di euro, cui nel 2012 si dovrebbero aggiungere altri 14 miliardi di perdite sui titoli di Stato presenti nei loro portafogli. 
Dato che il patrimonio delle 88 Fondazioni bancarie italiane ammonta a oltre 50 miliardi di euro, ci rendiamo conto di quanto la crisi finanziaria mondiale abbia intaccato uno dei più importanti patrimoni dell'Italia, costituito nel tempo dal lavoro degli Italiani e originariamente destinato al sostegno delle attività non lucrative, tra le quali, in primo luogo, la cultura.
Le improvvise, per gli ignari, notizie sulla grave crisi del Monte dei Paschi, che irrompono sulla campagna elettorale, annunciano, a nostro avviso, ulteriori difficoltà del sistema creditizio e delle fondazioni nel nostro paese: proprio quando recenti analisi di esperti confermano il fatto che questo sistema continua a sostenere soltanto le grandi aziende e le pubbliche amministrazioni, lasciando famiglie e piccole e medie imprese prive di denaro proprio quando sarebbe più necessario.
Una scelta strategica rivelatrice del fatto che per la finanza internazionalizzata il denaro non è il controvalore del lavoro di un popolo, ma lo strumento per renderlo schiavo attraverso la creazione del debito.
La patologica commistione di politica dei partiti e di speculazione finanziaria si traduce quindi nella rapida distruzione di risorse che il nostro popolo ha prodotto in decenni. Bruciando con gli strumenti della finanza derivata le ultime disponibilità destinate a sostenere non solo le attività economiche e imprenditoriali, ma anche quelle culturali creative artistiche, si minaccia quindi direttamente la stessa identità di ogni popolo.
Dietro i meri aspetti che tanto interessano i "tecnici", la questione di fondo è che con l'involuzione del credito e della banca, l'Italia regredisce ulteriormente dalla civiltà delle arti e dei mestieri, di cui è stata nobile espressione, alla dura soggezione alla brutale potenza dell'oro.

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