lunedì 30 aprile 2012

Lavoro e il ‘nuovo ordine’


Le trasformazioni del lavoro e il ‘nuovo ordine’
Dove stiamo andando/5 – Non è la prima volta nella storia che, come ora, cambiano radicalmente il concetto e il ruolo del lavoro, che tra l’età antica, il Medioevo e poi via via fino alla rivoluzione industriale hanno subito molte metamorfosi. Ciò avviene quando si produce una netta discontinuità nel modello della società
Pierre Carniti



(Quinto articolo di una serie – il primo – il secondo – il terzo – il quarto)


Il lavoro ha mutato carattere. Meglio ancora. Il concetto di lavoro e di occupazione è cambiato e sta cambiando radicalmente. Non si tratta di nulla di sorprendente. Perché è già successo tante altre volte nella storia. In effetti, se consideriamo la cosa anche solo nel quadro delle culture e dello sviluppo della civiltà occidentale, la concezione del lavoro ha subito numerose metamorfosi.
All’inizio della civilizzazione occidentale, che può essere fatta coincidere con la Grecia antica, il lavoro era addirittura giudicato una circostanza per escludere una persona dalla società. Fino al punto che chi era costretto a lavorare  non veniva considerato membro effettivo della comunità. All’epoca intesa soprattutto come “società politica”. In effetti, donne e schiavi, ai quali era assegnato il lavoro, erano ritenuti estranei alla polis.  Non avevano perciò diritto di parola e di voto nelle assemblee cittadine e nemmeno il diritto di parteciparvi come semplici spettatori. Nel Medioevo le cose cambiano. Ma non tantissimo. L’organizzazione sociale è infatti ripartita in: laboratores, oratores, bellatores, ed ai primi non è sostanzialmente riconosciuta alcuna voce in capitolo negli affari della comunità.  All’inizio della modernità, la scuola fisiocratica, considera invece lavoro produttivo (ossia creatore di valore e quindi meritevole di riconoscimento pubblico) solamente quello legato alle attività primarie: agricoltura ed estrazione mineraria.
Non è possibile e non è nemmeno il caso di percorrere qui tutti i passaggi relativi all’evoluzione del ruolo e della concezione del lavoro nel corso della storia. Tuttavia, è almeno utile sottolineare che, a partire dalle rivoluzioni borghesi, nella società di mercato e del capitalismo in rapida crescita il lavoro incomincia a costituire il segno distintivo dell’identità personale, familiare, sociale. Ed il suo significato è messo in valore, sia dai singoli individui che dalla politica.
Questo sviluppo ha alla sua base un processo di mutazione che inizia e si consolida con la rivoluzione industriale. Karl Polanyi ha acutamente descritto il punto di partenza della “grande trasformazione” che ha partorito il nuovo ordine industriale. Questo momento è costituito essenzialmente dalla separazione dei lavoratori dai loro mezzi di sussistenza. E quella dissociazione è parte di un più generale distacco. Infatti produzione e scambio hanno ormai cessato di essere iscritti in un omnicomprensivo, indivisibile modo di vita. Si sono in tal modo create le condizioni perché il lavoro, insieme alla terra ed al denaro, venga considerato una semplice merce e come tale trattata. Si potrebbe anche dire che è stata questa stessa separazione che ha dato, alla capacità di lavorare ed a chi la deteneva, libertà di movimento. Compresa la possibilità di essere collocato a diversi (migliori, più utili, o più redditizi) utilizzi, ricombinati, riaccordati in altri (migliori, più utili, o più redditizi) ordinamenti. La separazione delle attività produttive dal resto degli obiettivi di vita ha così permesso di congelare la “fatica fisica e mentale” in un fenomeno a sé stante. In sostanza una “cosa” che ha potuto essere trattata come tutte le cose. Vale a dire “gestita”, mossa, unita ad altre “cose”. Oppure fatta a pezzi. In assenza di questa separazione sarebbe stato piuttosto difficile dissociare mentalmente l’idea del lavoro dalla “totalità” alla quale esso apparteneva “naturalmente” nel passato e considerarla e trattarla  come un soggetto autonomo.
Come è noto, nella concezione preindustriale di ricchezza questa “totalità” aveva trovato incarnazione nella “terra”. Inclusi coloro che provvedevano alla semina ed al raccolto. Non sorprende quindi che il nuovo ordine industriale e le nuove categorie concettuali abbiano permesso la proclamazione dell’avvento di una diversa società. Società diversa in quanto nata dalla distruzione del ceto rurale e con esso del legame “naturale” fra terra, fatica umana e ricchezza. Naturalmente, perché questa trasformazione si compisse, si è prima dovuto  rendere i contadini esseri sostanzialmente inutili. Sradicati e “senza padroni”. Quindi soggetti mobili, in possesso di una capacità lavorativa che poteva diventare di pronto utilizzo. Comunque una potenziale fonte di impiego in sé e per sé.
Questa opera di sradicamento dei lavoratori dalla terra è apparsa, a non pochi testimoni dell’epoca, una espressione di emancipazione del lavoro. In qualche misura parte integrante dell’inebriante senso di liberazione delle capacità umane dalla vessatrice forza dell’abitudine e dall’inerzia dei costumi ereditari. Tuttavia, l’emancipazione del lavoro dalle sue “restrizioni naturali” non lo ha reso  libero di fluttuare, sradicato e senza padrone per un lungo tempo. Soprattutto non lo ha reso affatto più autonomo. Cioè libero di decidere e seguire la propria strada. Condizionato soltanto dal ciclo delle stagioni. In effetti il tradizionale stile di vita, ormai smantellato o non più funzionante, del quale il lavoro faceva parte prima della sua presunta emancipazione, veniva ora sostituito da un altro “ordine”. Questa volta però non si è più trattato di un “ordine naturale”,  ma di un ordine “prestabilito”. Costruito, invece che sugli sviluppi ed i contorcimenti dell’evoluzione storica,  come il prodotto del pensiero e dell’azione razionale. Perciò, una volta scoperto che il lavoro era la fonte della ricchezza, è diventato compito della ragione utilizzare e sfruttare quella fonte nel più efficiente dei modi.
Alcuni letterati e commentatori del turbolento spirito dell’epoca che ha segnato il passaggio dall’agricoltura all’industria, hanno interpretato il declino del vecchio ordine come una sorta di sovvertimento dinamitardo. Cioè come l’esplosione di una bomba installata dal capitale. Altri invece, come ad esempio Tocqueville, più scettici e niente affatto entusiasti, hanno visto in quella scomparsa una implosione anziché una esplosione. Analizzando in retrospettiva i fatti essi hanno individuato i semi della catastrofe nel cuore dell’ancien regime. L’aspetto che tuttavia va rilevato è che, nella letteratura dell’epoca, risulta curiosamente assente il dibattito sul nuovo regime. In particolare sulle intenzioni dei suoi nuovi padroni. In sostanza, la sola urgenza di catastrofisti e scettici, appariva quella di sostituire il più rapidamente possibile il vecchio ordine, ormai defunto, con uno nuovo. Naturalmente nella speranza che fosse meno vulnerabile e più affidabile del precedente.
In realtà, con lo sradicamento dei vecchi legami locali e comunitari, con la liquidazione dei vecchi usi e del diritto consuetudinario, il risultato più significativo ottenuto è stato soprattutto l’inebriante delirio per il nuovo inizio. Nel quale nessun altro intento, per quanto ambizioso, sembrava trascendere la capacità umana di pensare, scoprire, inventare, progettare ed agire.
Perciò, anche se la società felice, cioè una società di uomini felici, non poteva certo essere ritenuta dietro l’angolo, il suo arrivo imminente veniva preconizzato sui tavoli da disegno di molti uomini. Tanto di ingegno, quanto sognatori. Naturalmente, il profilo di questo abbozzo trovò poi, come spesso capita, la sola interpretazione pratica soprattutto nei posti di comando di pochi uomini di azione e di potere. In ogni caso, l’obiettivo al quale gli uni e gli altri hanno dedicato i loro sforzi è stato quello della costruzione di un “nuovo ordine”. Al punto che, l’appena scoperta maggiore libertà di agire veniva dispiegata appieno nel tentativo di prefigurare l’ordinata routine del futuro. Niente andava lasciato al proprio volubile ed imprevedibile corso. Alla contingenza ed alla casualità. Niente andava preservato nella forma preesistente. A maggior ragione se tale forma poteva essere migliorata e resa più utile ed efficiente. Ovviamente il “nuovo ordine”, in cui tutte le finalità venivano integrate, in cui i relitti della passata sorte avversa, i naufraghi abbandonati alla deriva sarebbero stati finalmente portati in salvo, veniva presentato come: solido, massiccio, scavato nella pietra, o (in omaggio all’accumulo delle innovazioni tecnologiche) fuso nell’acciaio. In poche parole destinato a durare.
In questo fervore edificatorio (a differenza del passato dove la grandezza, la maestosità era riservata solo alle cattedrali) grande era bello. Grande era razionale. Grande era sinonimo di potere, ambizione, coraggio. Non a caso il sito di costruzione del nuovo ordine industriale veniva costellato da monumenti a quel potere ed a quell’ambizione. Monumenti che potevano essere o meno indistruttibili. Ma certamente costruiti per apparire tali. Fabbriche gigantesche riempiete da pesanti macchinari, da moltitudini di operai, con disponibilità di dense reti di canali, ponti e reti ferroviarie, apparivano simili agli antichi templi eretti per sfidare l’eternità. Tali comunque da suscitare l’entusiasmo eterno degli ammiratori.

Nessun commento:

Posta un commento