lunedì 26 novembre 2012

Euro-Bankenstein: in questa follia c’è del metodo


A domanda rispondo

dal blog di Bagnai
Venerdì scorso ho passato un pomeriggio piacevole in compagnia della redazione dell’Ultima Parola, per presentare il libro durante l’anteprima web. Tutti ragazzi giovani, appassionati di politica e di economia, e decisamente col pollice opponibile: le osservazioni erano tutte di grande qualità!

Sono grato dell’opportunità che mi hanno dato e mi sdebito rispondendo alle domande che mi sono arrivate da Twitter durante la trasmissione. Non è stato possibile rispondere a tutte per ovvi motivi di tempo, ma non vorrei che qualcuno pensasse che magari ho cercato di glissare! Per dimostrarlo, oltre a rispondere in sintesi (dando qualche link per approfondimenti), citerò qualche precedente post o scritto nel quale tratto i temi, e anche (se permettete), i punti del libro nel quale credo di aver affrontato gli argomenti sollevati. I commenti del pubblico chiariscono che ora si preferisce approfondire i temi, motivo per il quale iniziative come quella dell’anteprima web riscuotono grandi consensi. Peccato che in Italia non possano raggiungere (per i noti motivi) un pubblico più ampio. Vado in ordine cronologico, il video con le domande è qui.

Daniele Kesh: “Oggi il vertice europeo è fallito. Si potrebbe recuperare la situazione con un miglioramento politico, ridiscutendo i trattati? La moneta unica potrebbe beneficiarne?”

Caro Daniele, in sintesi: la situazione è irrecuperabile, per i motivi che ho esposto qui (nel par. 6) equi. Hai ragione, l’unione monetaria beneficerebbe da una revisione dei trattati che prevedesse l’integrazione fiscale fra le economie dell’Eurozona: questo ci dice la teoria economica, a partire almeno da Meade (1957), come ricordo ne “Il tramonto dell’euro”. La storia però ci dice che in Europa questa integrazione fiscale è stata, è, e sarà in futuro, politicamente improponibile.Quindi chi vi parla di “più Europa” mente sapendo di mentire, e lo fa per restare aggrappato finché può alla cadrèga (mi adatto all’ambiente milanese).

Spiegazione: per “integrazione fiscale” si intende un assetto istituzionale nel quale una parte consistente delle risorse pubbliche di una unione monetaria è gestita dal bilancio federale (come negli USA) anziché dai bilanci nazionali. Il vantaggio è che in caso di problemi in un singolo Stato, tali da determinare una caduta dei redditi, il bilancio federale automaticamente compensa, redistribuendo risorse verso i paesi in maggiore difficoltà.
Prima della firma del Trattato di Maastricht Sala-i-Martin (Yale) e Sachs (Cambridge MA) avevano fatto notare che negli USA, in media, ogni dollaro di reddito perso dai cittadini di uno Stato dell’Unione a causa di una recessione “locale” veniva compensato da una riduzione automatica di imposte federali per 34 centesimi, e da un aumento di trasferimenti federali (sussidi di disoccupazione, ecc.) per altri 6 centesimi. Totale: 40 centesimi venivano recuperati dal contribuente, tramite un meccanismo “assicurativo” di condivisione del rischio fra Stati, che agiva in automatico via bilancio federale, evitando il crollo della domanda negli stati in recessione.

Nell’Unione Europea questo effetto di compensazione automatica era stimato pari ad appena mezzo centesimo di dollaro, e le cose da allora non sono molto cambiate. Con una compensazione fiscale così esigua, rinunciare alla flessibilità del cambio era evidentemente stato pericoloso. Sala-i-Martin e Sachs concludevano che il progetto europeo era a rischio, e ora lo vediamo anche noi.

Al di là di questi fattori “congiunturali” (capacità di reazione a uno shock recessivo), Jacques Sapircalcola che per consentire ai paesi del Sud di colmare il loro divario “strutturale”, i paesi del Nord dovrebbero trasferire loro 250 miliardi di euro all’anno per dieci anni (per investimenti in ricerca e sviluppo e infrastrutture) da aggiungere all’aiuto finanziario di emergenza e ai normali trasferimenti comunitari già in atto. Queste risorse semplicemente non ci sono o, se ci sono, chi le ha se le vuole tenere.

Precisiamo: questi meccanismi di compensazione congiunturali o strutturali nell’Eurozona sono assenti non perché non se ne capisse l’utilità, ma perché mancava la volontà politica di attuarli.Del resto, pensateci: per i paesi del Nord, che hanno guidato il processo di integrazione europea (il famoso asse franco-tedesco), non sarebbe stato razionale adottarli. Nel medio periodo, infatti, ciò avrebbe comportato la necessità di trasferire, in caso di problemi, risorse verso i paesi meno avanzati dell’Unione, e nel lungo periodo avrebbe significato trovarsi a competere con dei pericolosi concorrenti. Non è quindi per cattiveria ma per semplice calcolo economico (dei paesi del Nord) che le istituzioni europee sono state disegnate in un altro modo.

Del resto, se esistesse una volontà politica di cooperare nell’Unione Europea, questa si sarebbe potuta manifestare anche senza modifiche ai Trattati: sarebbe bastato che i paesi del Nord facessero politiche più espansive, invece di deprimere i propri consumi interni. La Germania, in particolare, non lo ha fatto, e non è la prima volta. Manca chiaramente una volontà di cooperazione, perché il progetto di Unione in realtà è un progetto di annessione. Chi lo guida non ha alcun interesse a colmare gli squilibri strutturali: preferisce conservare il proprio vantaggio, e usare i problemi congiunturali degli altri Stati sovrani come strumento di ingerenza nelle loro politiche. In questo contesto, privarsi del tasso di cambio come strumento di reazione a shock esterni è estremamente dannoso.

Paolo Cardenà tramite Giuliano Olivati: “Se si torna a una new lira, e quindi si svaluta, i tuoi ricavi resterebbero in new lira, ma i costi degli input esteri aumenterebbero a causa della svalutazione, e quindi sconteresti questo differenziale”.

Ovvero: aumenterebbero i costi a parità di ricavi e l’impresa andrebbe in difficoltà. Sembra un ottimo argomento, ma i dati lo smentiscono. Le esperienze storiche ci dicono che quando il cambio si riallinea ai fondamentali di un paese, l’economia riparte e non ci sono massicce ondate di fallimenti. Non è successo in Italia nel 1992, e direi che non è successo mai: qui trovate una sintesi di alcune esperienze storiche di svalutazione, e vedrete che generalmente la svalutazione è seguita da una ripresa (che non ci sarebbe se le imprese fallissero!).

Il motivo è banale: esattamente come noi non mangiamo panini di gomma imbottiti di catrame e non ci beviamo su un bel bicchiere di greggio, allo stesso modo il processo produttivo non si alimenta solo di input esteri. Il costo variabile più rilevante è in molti casi quello del lavoro, che normalmente si allinea all’inflazione importata con un certo ritardo. A sua volta, l’inflazione importata non rispecchia (per gli stessi ovvi motivi) tutto l’importo della svalutazione (qui uno studio esteso sull’argomento). Quindi, se il paese svaluta del 15%, per gli acquirenti esteri lo sconto del 15% è immediato, e loro ricominciano a comprare, facendo alzare il fatturato dell’azienda. Per l’impresa, invece i costi non aumentano subito e non del 15%. Questo è il motivo per il quale generalmente a una svalutazione segue un aumento del prodotto nazionale.

Aggiungo due osservazioni.

La prima è che se il dr. Cardenà avesse ragione, allora, di converso, per un paese in surplus sarebbe conveniente rivalutare: pagherebbe meno le materie prime, e potrebbe offrire prezzi ancora più bassi sui propri prodotti, andando ancora di più in surplus, senza contare che i suoi cittadini avrebbero maggior potere di acquisto sui mercati esteri. Ma perché chi è in surplus, come la Germania, fa di tutto per conservare un sistema nel quale non si può rivalutare? Perché purtroppo ho ragione io, cioè hanno ragione i dati: chi svaluta recupera Pil, e chi rivaluta invece generalmente raffredda l’economia.

La seconda è che la svalutazione del cambio (svalutazione esterna) ha effetti uniformi su tutti i cittadini (ugualmente colpiti dall’eventuale inflazione importata) e rilancia la domanda estera. La svalutazione del salario (svalutazione interna) colpisce solo i salariati e uccide la domanda interna. Questo è il motivo per il quale esperienze come quella della Lettonia sono fallimentari (vedi l’articolo citato sopra), ed è anche il motivo per il quale un governo di banchieri naturalmente è portato a prediligere lo strumento della svalutazione interna.


Edoardo Petiziol: “L’austerità in recessione è fallimentare. I benefici sono attesi per il 2020, secondo l’onorevole Galletti. Tra qui e il 2020 cosa ci aspetta?”

Lo ho chiarito a suo tempo nel mio blog. Che le politiche di austerità siano fallimentari è cosa nota, ieri riconosciuta da me (con tantissimi altri), oggi riconosciuta anche dal Fmi (guarda qui la discussione a p. 21 e seguenti). In questa follia c’è del metodo: indebolire l’economia italiana perché essa sia più facilmente aggredibile dai capitali esteri, favorendo così il passaggio in mano tedesca, francese, olandese ecc. di aziende private e pubbliche italiane (eventualmente privatizzate) capaci di generare profitti una volta avviata la ripresa. Profitti che a quel punto sarebbero reddito interno, ma non nazionale, perché andrebbero evidentemente agli imprenditori stranieri (causando ulteriori problemi in bilancia dei pagamenti). Il crollo degli indici azionari (teleguidato via spread) e il crollo della redditività aziendale (indotto dall’austerità e dalla svalutazione interna) favoriscono oggettivamente questo processo, mettendo gli imprenditori italiani in condizioni tali da accettare qualsiasi offerta di acquisto della propria azienda, come ho spiegato qui. Se non usciamo, quindi, ci aspetta la svendita della nostra economia.


Andrea De Mauro: “C’è molta indecisione, paura di uscire e paura di restare. Ci si sofferma sempre sull’aspetto economico, ma forse è tutta la costruzione europea a essere asimmetrica, a non garantire politiche adatte ai singoli Stati”

Ottima osservazione. Il problema esiste ed è anche questo ampiamente riconosciuto dalla letteratura scientifica. Il percorso di integrazione europea attraverso Trattati “monolitici”, uguali per tutti, è funzionale in realtà a una penetrazione dei grandi interessi economici del Nord nei paesi del Sud, come riconosceva Giacchetti prima della firma del Trattato di Maastricht. Nel “Il tramonto dell’euro” affronto questo aspetto e la sua relazione con le dinamiche della corruzione in Italia. Anche in questo caso sarebbe esistito e tuttora esiste un percorso alternativo di integrazione, basato sul sistema delle giurisdizioni funzionali sovrapposte, descritto ad esempio da Freydell’Università di Zurigo. Un approccio veramente liberale, perché scegliere ai paesi le aree nelle quali intendono rafforzare la cooperazione, e efficiente, perché meno vulnerabile al gioco dei veti incrociati. Purtroppo, sarebbe anche meno utile ai vasi di ferro dell’Unione Europea, e per questo si è scelta la strada “sovietica” dell’Unione Europea, che enfatizza le asimmetrie anziché combatterle.


Matteo Berta: “Oltre alla sua alternativa, c’è l’alternativa della MMT”.

Passo. Intanto le teorie che espongo nel mio blog, come la discussione precedente chiarisce, non sono mie, ma riflettono il pensiero di altri qualificatissimi esponenti del pensiero economico internazionale. Sto sempre molto attento a citare le fonti e a non “personalizzare” il dibattito. Quindi non esiste una “mia” alternativa. Circa la MMT, mi sono espresso nel video e nel blog: la mia critica alla divulgazione italiana di questa teoria è riferita all’efficacia e all’opportunità politica di certi messaggi (inclusa l’eccessiva personalizzazione del dibattito).

In ambito teorico è tuttora in corso un dibattito su quale sia l’effettivo apporto teorico di questa scuola di pensiero. Posso solo dire che l’affermazione più volte ripetuta da uno dei suoi esponenti, Randall Wray, circa il fatto che nell’attuale regime monetario internazionale, basato sul corso forzoso (perché il dollaro non è più convertibile in oro), i paesi non sono soggetti a vincolo di bilancia dei pagamenti, è evidentemente falsa, come dimostrano le varie crisi dei paesi emergenti e non, inclusa la crisi statunitense. In particolare, il motivo delle ricorrenti crisi statunitensi è stato spiegato nel 1960 dall’economista Triffin e chi fosse interessato ad approfondire trova una spiegazione qui (nel par. 4). La dipendenza persistente dalle altrui merci o fattori di produzione storicamente si è sempre rivelata un problema per i paesi, incluso, oggi, quello che per pagare deve semplicemente stampare dollari (cioè gli Usa).


Luca Battanta: “Siamo entrati truccando i conti: quale futuro poteva avere la moneta? La produttività è limitata dalle tasse sul costo del lavoro. La Gran Bretagna vuole addirittura uscire: non è forse il modello britannico che potrebbe essere adatto all’Italia?”

Molte domande. Sul “truccare i conti” ho risposto in video: che Italia, Belgio, Grecia e altri paesi fossero “fuori scala” rispetto ai parametri di Maastricht era perfettamente noto. Il “trucco” non era necessario. Ne “Il tramonto dell’euro” ricordo come la decisione di ammetterci (volevo dire: annetterci) all’Eurozona sia stata presa per precisa e documentata volontà dei governanti tedeschi, contro il parere delle relative istanze tecniche, sostanzialmente perché l’Italia interessava come mercato di sbocco, e tanto più quanto più l’unione monetaria rischiasse di indebolirla. Questo oggi è placidamente ammesso dagli stessi politici italiani che hanno gestito il processo.

L’incidenza del cuneo fiscale potrebbe avere effetti sulla competitività, e quindi indirettamente sulla produttività: in linea di principio sono d’accordo. La relazione però non è così lineare, come ci ricorda spesso Claudio Borghi su Twitter, perché, guarda un po’, il paese con il cuneo più alto è il Belgio (che teoricamente sta nel gruppo dei “buoni”) e quello con il cuneo più passo è l’Irlanda (che decisamente sta nel gruppo dei “cattivi”, anche se in via di redenzione). Qui i dati, per non parlare al vento. Va da sé che finché paghiamo interessi sul debito pubblico esorbitanti semplicemente per restare dentro l’Eurozona rinunciando alla nostra sovranità monetaria, non ci sarà mai spazio fiscale per fare una politica fiscale meno penalizzante per le imprese italiane.

Circa il modello britannico, bisogna intendersi. Se parliamo del tirarsi fuori dall’Eurozona, e forse dall’Unione Europea, io ritengo che sarebbe un’opzione percorribile anche per l’Italia, per motivi che argomento nel mio libro.


Stefania: “Gli ascoltatori sono contrari a questa Europa e a questo euro”

Il fatto è che un’altra Europa è possibile (vedi sopra il lavoro di Frey), ma un altro euro no,come argomento nel mio libro, semplicemente perché i paesi europei non hanno le caratteristiche che consentono di sostenere una moneta unica e non hanno fatto alcun passo decisivo per conseguirle (uniformando le economie reali, cioè i sistemi educativi, i mercati del lavoro, i sistemi di welfare, le dotazioni infrastrutturali, ecc.). Aggiungo che per loro stessa amissione i governanti europei non hanno fatto questi passi, sapendo che sarebbero stati necessari, perché erano consapevoli del fatto che ciò avrebbe condotto a crisi che avrebbero reso più accettabili da parte dei cittadini certi programmi di riforma. Non è una teoria del complotto, sono, come sapete, ammissioni degli stessi governanti. I lettori del mio blog hanno raccolto una lunga lista di queste confessioni in questo post.


Marco Mantovani: “Bloomberg ha detto che rimpiange la lira ma l’euro è comunque irrinunciabile. Il problema dell’euro è che è troppo forte. Ciò favorisce gli Usa. Quelli che crescevano erano però anche quelli con la moneta più forte. Non è che l’economia cresce quando c’è la domanda interna, come accade in Germania che sta rallentando meno degli altri?”

Anche questa osservazione dimostra profondità e ampiezza di vedute. Non si può considerare il problema dell’euro al di fuori del contesto monetario internazionale. Il diavolo, però, si annida in alcuni significativi dettagli.

Intanto, Marco, a differenza di altri, interpreta correttamente l’articolo di Bloomberg: la tesi sostenuta non è esattamente che bisognerebbe tornare alla lira, ma che l’euro dovrebbe comportarsi come la lira (cioè cedere) piuttosto che come il marco (cioè rivalutarsi). Nell’articolo originale non troviamo però l’affermazione che “non è possibile reintrodurre lire, dracme o pesetas senza produrre default e inflazione a doppia cifra”, che figura invece nella presentazione italianaAnzi: l’articolo di Bloomberg conclude citando un esperto il quale afferma: “The peripheral economies absolutely must be able to devalue and at the moment they are not able to do that”. Si riconosce cioè che il problema è che i paesi del Sud non possono svalutare, perché non hanno una propria valuta. Quindi Bloomberg ammette implicitamente quello che molti ormai vedono, cioè che la svalutazione dell’euro sarebbe solo un palliativo per i problemi dell’Eurozona, perché non compenserebbe i divari regionali.

Vorrei dare a Marco due stimoli.

Il primo è che nell’ultimo anno l’euro ha ceduto rispetto al dollaro di circa l’11%. I dati si trovanoqui. Questo, se da un lato non ha causato iperinflazione (segno che non mangiamo solo petrolio), dall’altro non sembra aver dato un particolare sostegno alle nostre economie. C’è da chiedersi se una ulteriore correzione del 5% sarebbe veramente risolutiva per i nostri problemi.

Il secondo è che la Germania non è stata, come Marco ritiene, la locomotiva, ma piuttosto il rimorchio dell’Eurozona. Nel periodo dal 1999 al 2007 l’unico paese che è cresciuto meno della Germania è stato l’Italia, e la Germania è cresciuta poco per via di una domanda interna particolarmente repressa, come testimoniano economisti italianitedeschi, e anche il sottoscritto.

Non è una novità: chi cresce molto, di solito importa anche molto, il che indebolisce il cambio. Di converso, se vuoi esportare molto, non devi consumare tu i beni che produci (è abbastanza ovvio). Questo risultato la Germania lo ha ottenuto contenendo fortemente i salari. Ciò ha causato una serie di squilibri sia all’interno del paese che all’interno dell’Eurozona. Il fatto che la Germania sia cresciuta meno di quanto le sue forti esportazioni avrebbero permesso, è legato al fatto che i suoi salari sono cresciuti meno della sua produttività. I lavoratori tedeschi, insomma, non hanno beneficiato particolarmente dei successi dell’industria tedesca, e questo ha determinato una situazione di squilibrio nell’intera Eurozona, come riconosce l’Organizzazione Internazionale del Lavoro nel suo rapporto 2012 (vedi il box 4).


Daniele Kesh: “L’Unione Europea chiama Bagnai per uscire dall’euro”.

Come ho detto in trasmissione, sarebbe bello, ma è irrealistico, e renderebbe comunque inutile il mio libro, che considera quello personalmente ritengo lo scenario più probabile: quello di uscita unilaterale di un paese (verosimilmente la Francia), piuttosto che di “smontaggio” concordato dell’euro. Certo, se la razionalità prevalesse la cosa migliore sarebbe mettersi d’accordo. Uno scenario simile, quello di uno smantellamento concertato e simultaneo dell’Eurozona, è stato considerato da un gruppo di economisti francesi ed è riportato qui. C’è anche chi favorisce l’ipotesi di una divisione dell’euro in due, con “fuoriuscita” dei paesi del Nord, come nell’articolo che mi è stato recentemente inviato da due colleghi polacchi e che trovate qui. Molti sostengono che l’uscita di un paese (o gruppo di paesi) “forti”, con la creazione di un Neuro (euro del Nord) sarebbe meno traumatica rispetto ad altri scenari, e forse è così. Nel mio testo però ho analizzato il caso di una uscita non concordata di un singolo paese del Sud, prendendo come riferimento l’Italia. Va ricordato che secondo Merril Lynch (in uno studio commentato qui) l’Italia sarebbe il paese più avvantaggiato da un’uscita unilaterale, e nel blog cito diversi studi che descrivono possibili percorso di uscita, come quello di Bootle e quello di Tepper, utili per farsi un’idea sulle modalità pratiche e sulle precedenti esperienze storiche.


Olivati: “Per venirne fuori non dobbiamo uscire dall’euro ma azzerare i debiti”

Questa mi sembra un’osservazione un po’ semplicistica. Va da sé che nella storia dell’umanità i debiti si sono sempre fatti, ma li si è pagati solo ogni tanto. Il default, cioè la bancarotta, non è un’invenzione moderna. Nel nostro caso però penso sarebbe saggio chiedersi di quali debiti si parla, e come si sono accumulati.
Ora, il dato è che in tutti i paesi in crisi i debiti che hanno causato tensioni sono quelli di debitori privati (famiglie e imprese) verso creditori esteri. Il debito pubblico in Irlanda, Spagna, Italia stava diminuendo, in Grecia era stazionario, e in Portogallo era in lieve aumento, mentre il debito estero (privato) era in aumento ovunque. L’euro è parte di questo processo. I debiti sono stati contratti dal settore privato del Sud per acquistare beni prodotti al Nord (automobili, sottomarini, ma anche carne e latte), e l’euro ha favorito questo processo due volte: la prima, perché ingessando il cambio, ha reso per i paesi del Sud più conveniente l’acquisto dei beni del Nord; la seconda perché, sempre eliminando il cambio, ha favorito il prestito al Sud da parte delle banche del Nord, che non temevano più il rischio di svalutazione e ritenevano più “credibili” i paesi entrati nella moneta unica.

I debiti “pericolosi” (quelli di famiglie e imprese) si sono accumulati direttamente e indirettamente a causa dell’euro. Possiamo anche decidere di condonarli (il che obbligherebbe a salvataggi bancari ancora più massicci di quelli in corso), ma mantenendo l’euro, in capo a pochi anni ci ritroveremmo nella medesima situazione.

Con la flessibilità del cambio i paesi del Sud avrebbero acquistato meno beni al Nord (perché il cambio del Sud si sarebbe svalutato, rendendo meno convenienti i beni altrui), e i paesi del Nord avrebbero prestato con meno incoscienza al Sud (temendo di ricevere indietro moneta svalutata). La flessibilità del cambio, in questo senso, è un meccanismo che naturalmente disciplina i comportamenti dei mercati. Rinunciarvi è pericoloso. Il debito pubblico è andato fuori controllo dopo, sia per la necessità di salvare la banche (soprattutto in Germania, Belgio e Irlanda), sia perché la crisi di famiglie e imprese ha fatto cadere il gettito fiscale e aumentare i trasferimenti dello Stato (in Italia ecc.). Il debito pubblico quindi è l’ultimo dei problemi, nel senso che arrivadopo gli squilibri causati dalla rigidità del cambio e dopo i debiti privati che hanno finanziato questi squilibri. Ragionare in termini di “cancelliamo il debito pubblico” quindi è un po’ come curare la polmonite con un antistaminico. Buona fortuna!


Edoardo Petiziol: “Il barista bravo e l’agenda Bagnai”

Solo una precisazione: l’esempio del barista me lo ha fatto il mio amico Alessandro Guerani, e rende esattamente l’idea della nostra situazione. L’economia è fatta di offerta e di domanda, e l’euro trucca le carte a nostro svantaggio.

Circa l’agenda, se ci riferiamo alle modalità “tecniche” di uscita, ne ho parlato sopra. Nel testo entro in tutti i dettagli e le cifre relative all’Italia, che non sono preoccupanti perché in effetti, come segnala Merril Lynch, l’Italia sta messa meglio di tanti altri paesi (non solo del blocco periferico).

Se ci riferiamo invece al percorso da intraprendere dopo, la mia idea (non originale, perché viene addirittura da James Meade, 1957) è che bisognerebbe proseguire un percorso di integrazione europeo, ma basandosi sull’equilibrio dei conti esteri, non di quelli pubblici.Un’idea abbastanza banale, visto che i paesi in difficoltà, come Irlanda e Spagna, erano quelli con debito pubblico in calo e debito estero in crescita!

I tre assi sui quali definire la politica di integrazione europea nel medio periodo dovrebbero essere:
1)      mantenimento della flessibilità del cambio;
2)      allineamento dei salari alla produttività;
3)      quantificazione del deficit pubblico in funzione del tasso di crescita dell’economia compatibile con l’equilibrio esterno.

Parto alla fine: nei paesi in surplus di bilancia dei pagamenti, i governi dovrebbero spendere di più, sostenendo così direttamente i redditi dei propri cittadini, e indirettamente quelli dei cittadini degli altri paesi. Nei paesi in deficit di bilancia dei pagamenti i governi dovrebbero fare tagli, ma questi sarebbero meno dolorosi perché le economie colpite beneficerebbero dell’espansione della domanda proveniente dai paesi in surplus. Si tratta di un semplice principio di coordinamento delle politiche fiscale.

L’allineamento dei salari alla produttività ha sostanzialmente la stessa funzione (ne ho parlato sopra) ed è al centro di numerose proposte di economisti italiani e tedeschi (ancora una volta, niente di originale).

Quello che gli illustri colleghi però non vogliono vedere è che queste misure richiedono una volontà di cooperare che potrebbe non esserci. In questo senso diventa essenziale mantenere la flessibilità del cambio: se un paese infatti deviasse dalle regole sul coordinamento della spesa pubblica o della dinamica delle retribuzioni (praticando una politica aggressiva di “svalutazione” dei salari e repressione della crescita, come ha fatto la Germania dal 2003 al 2007), agli altri paesi rimarrebbe l’arma della svalutazione difensiva. Si vis pacem para bellum. Un’agenda molto semplice.

Se poi la volontà politica di proseguire un cammino di integrazione mancasse (ma non lo credo), comunque meglio soli che male accompagnati. Come documento nel testo, in giro per il mondo ci sono decine di paesi delle nostre dimensioni economiche, in varie latitudini, con o senza materie prime, tutti dotati di autonomia monetaria e valutaria. L’idea che l’Italia sia “troppo piccola” per permettersi questa autonomia è un’idea un po’ sciocchina, che si sbriciola al confronto coi dati.


Andrea De Mauro: “Se uscisse solo l’Italia come potrebbe affrontare i mercati finanziari: il tasso di interesse diventerebbe elevatissimo”.

Ahi, ahi, ahi! Qui però Andrea mi cadi nel luogocomunismo! Le cose stanno in realtà in modo assolutamente opposto, come riconoscono i migliori studi internazionali (vedi Merril Lynch). Il tasso di interesse è elevato adesso perché i mercati sanno quello che succederà e stanno prezzando il rischio di una nostra uscita con svalutazione. Una volta materializzatosi questo evento, succederebbero due cose: (1) all’interno redditi e risparmi crescerebbero, riducendo il bisogno di ricorrere a finanziamenti esteri (un bisogno già relativamente contenuto in Italia rispetto ad altri paesi dell’Eurozona, visto che siamo fra i primi sia come avanzo pubblico primario che come tasso di risparmio delle famiglie); (2) i tassi di interesse non dovrebbero più incorporare un premio per il rischio, perché il debito emesso nella nuova valuta sarebbe liquido, avendo lo Stato italiano recuperato sovranità monetaria.

Per questi due motivi ci si aspetta che lo sganciamento dall’euro avrebbe un effetto propizio sui tassi, facendoli scendere, come lo ebbe nel 1992 l’uscita dallo Sme, in seguito alla quale i tassi scesero, anziché salire, come racconta qualche disinformato. Dettagli e ordini di grandezza li trovi nel testo o nel mio blog.


Matteo Berta: “È possibile restare nell’euro con una Bcesimileallafed?”.

No, per i motivi che ho spiegato qui e qui. In sintesi, siccome l’inflazione non è causata dalla crescita della moneta, moneta unica non significa inflazione unica, e qualsiasi politica monetaria centralizzata di qualsiasi tipo non può risolvere gli squilibri dell’Eurozona, che sono squilibri fra un paese e l’altro. La stessa cosa è successa in Italia, dove avere la stessa Banca centrale sovrana per 150 anni non ha risolto gli squilibri del Mezzogiorno.


Luca Battanta: “Una doppia circolazione fra una nuova lira e l’euro potrebbe essere un modo per uscire in maniera soft”

La moneta unica vantaggi non ce ne ha dati (a meno che non crediate alla bufala del dividendo, per la quale vi rimando all’amico Claudio Borghi), quindi non vedo il punto di mantenerla. Non capisco cioè a cosa serva usare la sovranità solo a metà, mettendo su una doppia circolazione che sarebbe estremamente difficoltosa da gestire.


Stefania: “Marta sostiene che l’euro ha compromesso la democrazia nel nostro paese”

Secondo me questo è il vero problema. Il rifiuto dell’euro deve essere un rifiuto senza se e senza ma di un metodo di governo, quello basato sull’uso della crisi economica come manganello per costringere i popoli europei ad accettare “riforme strutturali” a senso unico. Se anche fuori dall’euro ci fosse la catastrofe economica (e invece c’è la ripresa), bisognerebbe comunque abbandonarlo per riappropriarsi del potere di decidere democraticamente sul proprio futuro.


Marco Mantovani: “Riccardo Puglisi chiede per quale ragione gli Usa sarebbero un’area valutaria ottimale e l’Eurozona no”.

Vedi sopra. Non esiste e non è politicamente proponibile un’integrazione fiscale, e sono comunque difficilmente praticabili, e richiedono un lungo cammino, le altre “integrazioni” che la teoria economica richiede come propedeutiche per una efficace unione monetaria: quella culturale, dei sistemi educativi, di welfare, e del mercato del lavoro, senza le quali una effettiva mobilità del lavoro (altro elemento portante di un’unione monetaria efficace) non è possibile. L’esperimento è fallito perché non poteva riuscire. Forse è fallito anche perché doveva fallire, nel senso che, come nel caso dell’annessione della Germania Est, chi ha guidato questo processo sperava di poter più facilmente inglobare i paesi limitrofi se li avesse schiacciati sotto un cambio insostenibile.

Personalmente credo che l’identità europea nasca dall’interazione fra le identità nazionali. Preservare sovranità mi sembra il modo migliore di preservare l’Europa. Migrare dalla Grecia alla Finlandia non è e non sarà ancora per parecchi decenni come migrare da San Diego a New York. La moneta unica non ha aiutato e non aiuterebbe questo tipo di evoluzione. Al contrario, essendo una scelta economicamente irrazionale, la sta ostacolando. I politici che vogliono “volare alto”, sopra le leggi dell’economia, sono come degli ingegneri che vogliano volare alto, sopra le leggi della fisica. Non passerei sopra un ponte costruito da simili ingegneri, e non voglio vivere in un paese governato da simili politici

E tu, Riccardo?

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