Anticapitalismo, antimperialismo e questione nazionale
di Rodolfo Monacelli - 15/11/2012Fonte: megachip
La genesi di quest’articolo deve molto al pensiero di Costanzo Preve che ringrazio per gli spunti, le riflessioni, i consigli e la stima. (r.m.)
La crisi dell’Eurozona e dell’Euro ha fatto tornare in voga una parola, «sovranità nazionale», dimenticata, se non rifiutata in toto da parte della sinistra italiana. Una prospettiva politica che va ben al di là della questione dell’Euro e della UE e su cui è bene ritornare sopra. A parere di chi scrive, infatti, la «questione nazionale» sarà un concetto ineludibile per ogni coerente politica e pratica anticapitalistica.
Questo perché, in un mondo sempre più dominato dalle oligarchie finanziarie e sovranazionali, difendere le identità culturali dei popoli, le sovranità politiche e monetarie degli stati sarà l’elemento che oggettivamente si porrà in contrasto con gli interessi del capitalismo internazionale e dei suoi strumenti (FMI, Banca Mondiale, UE, ecc). Come cercheremo di spiegare in questo articolo, una questione nazionale correttamente intesa non va però confusa in nessun modo con il nazionalismo ma è, anzi, la premessa per un vero e reale Internazionalismo, l’asse portante di una corretta politica antimperialistica come punto di raccordo per una reale liberazione sociale.
Purtroppo in Italia non è stata, però, ancora compresa dalle forze antisistema l’importanza di tale questione ed è, probabilmente, una delle cause dell’immobilismo politico e delle condizioni di sudditanza imperialistica in cui si trova il nostro Paese.
Prima di iniziare a parlare della questione nazionale sarà utile rispondere preventivamente alle obiezioni che ci verranno poste rispetto alle tesi che verranno esposte in questo articolo.
Chi contrasta con queste tesi ritiene, infatti, che l’idea di Nazione sia un’invenzione artificiale, il risultato della modernità capitalistica e che oggi, superato quel momento storico, non abbia più nessuna validità. A tali posizioni non vogliamo opporre una discussione sull’origine “culturale e non statuale” delle nazioni (che le lotte per l’indipendenza basca, irlandese, scozzese, ecc comunque avallerebbero), ma un principio ben più importante, lasciando però la parola a Costanzo Preve:
«La genesi è sempre ed in ogni caso particolare, la validità è universale, laddove naturalmente questa universalità sia logicamente costruita come momento di una verità reale. Gesù di Nazareth si mosse in un contesto storico ultraparticolare, oggi completamente tramontato, ma la validità del suo messaggio non è riducibile a questa genesi storica particolare, ma possiede una sua validità veritativa metastorica. Facciamo ancora l’esempio del Liberalismo, della Democrazia e del Socialismo. Storicamente, nella loro forma moderna, queste tre tradizioni hanno avuto una genesi storica particolare, rispettivamente borghese (il Liberalismo), piccolo-borghese (la Democrazia) ed operaia e proletaria (il Socialismo). Ebbene, questa genesi storica particolare in tutti e tre i casi trapassa in validità universale, non nella totalità delle loro componenti storiche, ma in quelle che la razionalità logica convalida e conferma. È esattamente questa la realtà dell’Identità Nazionale, statuale o etnica che ne sia stata la genesi particolare».[1]
Un’altra tesi (probabilmente politicamente la più seria ed importante) è quella secondo cui l’idea di nazione sarebbe stata lo strumento ideologico per la politica imperialistica degli stati colonialistici dell’800 e del ‘900. Questo è assolutamente vero, ma una lotta per la sovranità e la liberazione nazionale non ha nulla a che vedere con il Nazionalismo che, per la stragrande maggioranza dei popoli del mondo, è stato piuttosto la «negazione assoluta» della realtà nazionale.
Il Nazionalismo colonialistico ottocentesco e novecentesco è, infatti, il più grande nemico dell’identità nazionale che «ha come sua prima caratteristica il riconoscimento dell’altro come DIFFERENTE e perciòUGUALE, che è cosa ben diversa, ed anzi opposta, dal considerarlo DIVERSO e perciò DISEGUALE».[2]
Questione nazionale, questione sociale e cultura di sinistra
La questione della sovranità nazionale, come anticipato nell’introduzione a quest’articolo, è stata posta nuovamente in rilievo a causa della crisi dell’Eurozona e dei diktat europei. Nonostante questo, però, salvo rari e sporadici casi, a sinistra la questione della sovranità e dell’indipendenza nazionale non viene ancora considerata come la battaglia fondamentale dei prossimi anni.
Sarebbe sbagliato ritenere questa mancata presa di posizione come un’ingenuità politica o un abbaglio. Tutto ciò deriva, piuttosto, da una questione culturale. Ha ragione, ancora una volta, Costanzo Preve a ritenere la sinistra come «il luogo culturale dello sradicamento», e perciò «il referente culturale privilegiato per l’attuale globalizzazione capitalistica», per l’americanizzazione forzata del pianeta e per l’europeismo senza Europa. È dunque perfettamente normale, per chi abbia come prospettiva politica quella di rafforzare il cosmopolitismo capitalistico (magari credendo in questo modo di fare la rivoluzione!), non comprendere l’importanza della questione nazionale.
L’obiezione più forte che viene da sinistra è quella secondo cui la nazione sarebbe una falsa unità interclassista, «un’identità borghese e capitalistica, mascherata e travestita, venduta ai proletari dagli apparati ideologici di stato per trasformare i proletari stessi in carne da macello per le guerre imperialistiche».[3]
Tale posizione è politicamente molto debole (e che nega, del resto, la stessa storia del comunismo storico novecentesco, dall’URSS alla Cina di Mao), ma è ormai senso comune da parte del vasto popolo della sinistra italiana. È doveroso, quindi, rispondere.
La lotta per l’indipendenza e la sovranità nazionale, come abbiamo anticipato, non è la negazione dell’Internazionalismo, ma ne è il suo presupposto. L’Internazionalismo prevede, infatti, un rapporto «fra nazioni differenti ed uguali» e non certo la negazione dell’identità nazionale, contrariamente a ciò che ritiene il luogocomunismo del ceto semicolto politicamente corretto di sinistra.
Liberazione nazionale e liberazione sociale dicevamo. Due elementi non in contrapposizione, ma assolutamente complementari. Senza l’elemento sociale, che prevede il conflitto (esterno ed interno), infatti, le istanze emancipatorie di una lotta per l’indipendenza e la sovranità nazionale rischierebbero di sfociare nella xenofobia, nel razzismo e nel nazionalismo. Così, quello che potrebbe essere uno strumento di liberazione dei popoli dall’oppressione capitalistica e dal mercato mondiale si trasformerebbe in un mezzo utilizzato dai dominanti per integrare la nazione all’interno degli stessi meccanismi di oppressione e discriminazione.
È necessario, quindi, integrare e far interagire tra di essi i due piani (la questione nazionale e la questione sociale). Per far questo è, però, al contempo, importante ridefinire il concetto di Classe che, proprio grazie alla questione nazionale, sappia adattarsi al mutamento delle realtà sociali.
La questione nazionale, per porsi come efficace strumento di liberazione dei popoli oppressi, non può, dunque, essere distinta da quella sociale come, del resto, avevano già compreso, dagli anni ’40 in poi, tutti i movimenti anticolonialistici del Terzo Mondo, e che oggi non ha certo perso validità poiché:
«I particolarismi di qualsiasi tipo sono considerati incompatibili con la logica del sistema capitalista, o perlomeno in ostacolo al suo funzionamento ottimale. Ne consegue che all’interno di un sistema capitalistico è un imperativo affermare e mettere in atto un’ideologia universalistica [ben diversa dal concetto filosofico di “universalismo” – N.d.r.] come elemento essenziale dell’incessante ricerca di accumulazione del capitale. È per questo che parliamo delle relazioni sociali capitalistiche come di un “solvente universale” che lavora per ridurre tutto ad una forma omogenea di merce la cui unica misura è il denaro».[4]
La tendenza al superamento delle barriere tradizionali è, infatti, alla base del capitalismo (così come, culturalmente, il superamento dei legami comunitari “borghesi”): per questo le rivendicazioni nazionali possono diventare oggi lo strumento più efficace contro le tendenze cosmopolite del capitalismo, ma solo se unite ad una prospettiva di liberazione dallo sfruttamento.
Un’alleanza naturale che sarebbe bene che la sinistra, e più in generale le forze antisistema, iniziassero a comprendere. Mentre il capitale e i capitalisti “espatriano”, si mondializzano, nella nazione restano gli sfruttati, i lavoratori, i disoccupati, gli esodati e i cassintegrati, che non hanno più nemmeno la possibilità di essere venduti sul mercato mondiale (perché l’offerta di lavoro è eccedente ovunque) e che difendono il proprio lavoro (nella propria nazione) contro gli effetti del sistema economico mondiale, contro i diktat europei, contro la dittatura del dollaro e dell’Euro.
È evidente che, per tutelare i propri interessi, i lavoratori (intesi in un’accezione la più larga possibile) dovranno dare una caratterizzazione “nazionale” alle loro lotte, al conflitto esistente tra i propri interessi di classe e le tendenze globalizzatrici del capitalismo.
Ottenere una vera e sostanziale, e non soltanto formale, liberazione nazionale vuol dire, dunque, anche liberazione degli oppressi da cui quella nazione è composta. Non certamente mettersi in concorrenza con l’imperialismo, dare vita a forme di sub-imperialismo (quello, cioè, che cercano di fare i governi europei) né, tantomeno, mantenere inalterate le differenze di classe.
Quelli che… ma l’Europa?
In un articolo sull’importanza della questione nazionale non possiamo esimerci dal parlare di Europa.
Ovviamente per ottenere una reale liberazione nazionale sarà necessario in primis liberarci dall’imperialismo economico, culturale e militare americano (di cui le basi NATO non sono altro che la loro manifestazione più evidente). Ma questo problema è ormai chiaro persino per la sinistra italiana e ci pare superfluo tornarci sopra.
Iniziamo col dire che qui non parleremo di immaginifiche Europe “sociali” o “dei popoli” (che ovviamente anche l’estensore di quest’articolo condivide teoricamente e che ritiene auspicabili), ma dell’Europa che oggi esiste e delle sue alternative, vere, reali, praticabili.
Sintetizzando possiamo dire che sono oggi in campo tre idee di Europa. Innanzitutto quella esistente, quella “euro-atlantica”, l’Unione Europea, concepita dagli Stati Uniti sin dalla fine della II Guerra Mondiale come area di affermazione egemonica e non soltanto di libero scambio in funzione delle proprie merci (il che non vuol dire, ovviamente, che al suo interno non si possano creare degli scontri inter-imperialistici tra gli Usa e le potenze dominanti europee, la Germania innanzitutto, e che ha come vittime sacrificali i cosiddetti PIIGS).
Le altre due idee di Europa, che potremmo definire “eurocentrica” ed “euroasiatica”, avrebbero teoricamente come obiettivo quello di costruire un blocco geopolitico alternativo agli Usa. Tale progetto non è, però, a parere di chi scrive, certo più auspicabile.
Al di là della reale fattibilità di tale progetto, con gli attuali rapporti di forza interni alla UE, non di antimperialismo si parla, ma semplicemente di antiamericanismo (per questo motivo è condiviso da gran parte delle forze di estrema destra). Un progetto non chiaro nei suoi confini, nella sua identità e con una debolezza storica, culturale e politica.
L’unico risultato di tale progetto sarebbe, infatti, esclusivamente quello che di sostituire alla globalizzazione imperialistica americana una globalizzazione multipolare, divisa per blocchi geopolitici.
Progettare un’Europa solidale e antimperialistica, lo ribadiamo, è giusto ed auspicabile, ma bisognerebbe capire, al di là delle grandi narrazioni, che per fare questo bisognerebbe, prima, pensare a come formare un popolo europeo (con una lingua ed una cultura comune, o almeno dialoganti, e non la sommatoria delle culture nazionali). Ma, soprattutto, pensare a come ottenere prima la sovranità politica dei singoli stati nazionali che ha come presupposto fondamentale l’uscita dall’Unione Europea (rimanerci vuol dire, volenti o nolenti, accettare l’Euro, l’unificazione dei mercati, il Fiscal Compact, il MES, ecc.).
Il futuro, per chi voglia combattere realmente per una liberazione dalla dittatura capitalistica, sarà quello di prospettare una visione politica che riesca a unire liberazione sociale con quella nazionale. Non certo quella del ritorno della “Dottrina dei grandi spazi”, dei macro-aggregati territoriali che, geopoliticamente e storicamente, è bene ricordarlo, si sono sempre caratterizzati nei termini di espansione territoriale, di egemonia e di dominio aggressivo e militarista.
I nemici di ogni imperialismo non saranno, dunque, certo queste visioni di Europa, ma porre in primo piano nella propria battaglia politica la questione nazionale, che presuppone sovranità, indipendenza, autodecisione politica, autogoverno economico e rapporti tra pari con le altre nazioni.
Una battaglia per conquistare la propria sovranità nazionale, come abbiamo cercato di spiegare, non vuol dire combattere battaglie di retroguardia. Sarà, invece, l’idea del “Più Europa” che avrà come conseguenza la perdita degli spazi di dialettica democratica e di alternativa al capitalismo, lasciando così il campo libero, tra le altre cose, ai Professor Monti di tutto il mondo.
[1] C. Preve, “La Questione Nazionale alle soglie del XXI secolo”, pag. 9, Editrice C.R.T., 1998
[2] C. Preve, IBIDEM, pag. 10
[3] C. Preve, IBIDEM, pp. 10-11
[4] E. Balibar, I. Wallenstein, “Le identità ambigue”, Edizioni Associate, pag. 43
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